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mercoledì 23 maggio 2012

“COSE DI COSA NOSTRA”


di Giovanni Falcone, con la collaborazione di Marcelle Padovani
(a cura di Dennis Salvetti)

 
La prima lettura di questo libro risale a parecchi anni fa, in “esecuzione” di un compito di Diritto alle superiori. Un testo che mi ha molto colpito, allora come oggi, per la lucidità dell’esame di un fenomeno come quello mafioso, che nell’ombra e nel silenzio perpetua sé stesso, che ha adottato una gerarchia solida e sufficientemente mobile per adattarsi al contesto storico. Un fenomeno di per sé affascinante e terribile, che mi ha sempre colpito (almeno fin da quando ho memoria della conoscenza della sua esistenza). Quindi in occasione di un particolare anniversario, quello del ventennale dell’“Attentatuni” (i siculi mi dovranno perdonare per gli eventuali errori grammaticali), mi sembrava doveroso ricordare in qualche maniera il sacrificio non solo di un magistrato, ma anche di tutti i suoi collaboratori, a prescindere dalla divisa vestita o meno, ma soprattutto di tutte quelle persone che hanno dedicato la loro vita e i loro sforzi per combattere questo “affascinante e terribile” fenomeno umano e sociale.
Di seguito il mio vecchio compito svolto (in un qualche anno che non ricordo), in cui spero di aver riassunto sufficientemente bene le idee e le teorie emerse dallo studio di Cosa Nostra durante gli anni del pool antimafia, in cui spero emergano anche le vicende umane che si intrecciano con questa storia, vicende di uomini, di siciliani. 


Nel prologo M. Padovani descrive la situazione siciliana spenta l’euforia del maxiprocesso condotto dal pool antimafia, racconta la sua conoscenza del giudice Falcone, del suo lavoro, della vita condotta dai magistrati e dai poliziotti tra auto blindate, stanze iperprotette e tragitti tortuosi tra prigione e “prigione”(la casa dove era “costretto” a vivere sempre sotto gli occhi vigili di agenti della scorta). Nonostante l’aria sempre tesa, sul chi vive, Falcone e i colleghi trovavano posto anche per l’ironia, quando “s’impegnavano” a scrivere truculenti necrologi pubblicati poi sul quotidiano locale. Dopo una vita passata in un quartiere al centro di Palermo (da dove provenivano tra l’altro molti uomini d’onore) assieme alla famiglia, interrogandosi sul suo futuro indeciso tra medicina e legge; si iscrive, contemporaneamente, all’Accademia Navale e alla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Palermo, alla fine sceglierà quest’ultima. Diventa magistrato nel 1964. Dopo alcuni incarichi nel ramo civile si sente più propenso per il ramo penale, in particolare per i reati mafiosi. Vive costantemente a stretto contatto con il rischio di morire, questa paura col tempo diventa di seconda natura, certo bisogna stare attenti ad ogni particolare, perché si può essere colpiti ovunque, ma non bisogna farne un dramma, “d'altronde – diceva – si muore per qualsiasi motivo”. Falcone dispone di una calma e di una sicurezza di sé incrollabile che si opponeva spesso all’insolenza di alcuni uomini d’onore. Ha avuto a che fare con i più importanti pentiti: Michele Greco, Antonino Calderone, Tommaso Buscetta, Francesco Marino Mannoia, e così via. Era importante, se non fondamentale conoscere la differenza tra pentiti e falsi pentiti (intesi come persone esterne all’organizzazione, semplici delinquenti o fiancheggiatori, come i trafficanti di droga in quanto prendevano contatto con uomini d’onore ma non lo erano) il che poteva significare, spesso, tra la buona riuscita o il fallimento di un’operazione. Era fondamentale instaurare un rapporto di reciproco rispetto, perché se si è troppo insolente o troppo vicino si rischiava di non ottenere nulla, bisognava fare capire al mafioso di trovarsi di fronte allo Stato senza gradassate o false amicizie. I diversi pentiti hanno mostrato diverse sfaccettature del mondo di Cosa Nostra: Buscetta era più vicino al piano politico, è stato molto evasivo sull’argomento, offrendo comunque una collaborazione molto importante; Contorno semplice soldato, cioè esecutore degli ordini, ha offerto una visuale completa del suo ruolo; Calderone è stato molto preciso sulla realtà mafiosa siciliana; Mannoia costituisce la sintesi tra i primi tre, fornendo anche le ultime evoluzioni dell’organizzazione; Sinagra ha permesso la comprensione dei rapporti tra criminalità organizzata e non.
Il libro è strutturato in cerchi concentrici che circondano il cuore del problema-mafia: lo Stato, che troppe volte è stato indulgente, persino impassibile, svegliandosi di tanto in tanto quando la situazione si riempiva di morti.
Il primo cerchio è la manifestazione più concreta e visibile di Cosa Nostra: la violenza, spesso su questa forma si è fantasticato parecchio creando un’immagine distorta del modo di uccidere rivali o persone “fastidiose”. Si era più propensi a pensare allo scorrere di fiumi di sangue e attentati spettacolari; essendo un’organizzazione clandestina e parastatale preferisce modi contenuti e sottili per eliminare i problemi: per esempio lo strangolamento è il metodo più utilizzato, anche se per riuscire servono diverse persone, perché la vittima scalcia, morde e spesso si libera. Altro mito è l’uccisione per incaprettamento, è solo un modo per trasportare agevolmente un cadavere, non per uccidere una persona. Per il mafioso, l’uomo d’onore, l’omicidio non deve essere spettacolare, deve essere utile e possibile altrimenti è inutile tentare, non ci si deve esporre.
Il secondo cerchio è quello dei messaggi e messaggeri, essere siciliano, e più ossessivamente mafioso, è un continuo codificare e decodificare messaggi, i significati variano da sguardi, inflessioni di voce, piccoli gesti che se non capiti, male interpretati o, peggio ancora, ignorati possono condurre a sbagliate interpretazioni. Oltretutto per un magistrato è importante capire come rivolgersi ad un mafioso e come quest’ultimo si rivolge a lui, perché ad ogni appellativo si collega un diverso grado di importanza: signore intendeva dire che l’interlocutore non aveva diritto ad alcun titolo, Zio o Don intendeva un personaggio importante all’interno di Cosa Nostra, Dottore o Ingegnere erano altri alti gradi di onorificenza. Tutto nel mondo della mafia non è da considerarsi trascurabile, tutto ha la sua importanza.
Il terzo cerchio rappresenta gli intrecci tra vita siciliana e mafiosa, l’organizzazione ha fatto suoi i principi, gli usi e le tradizioni siciliane trasportandoli su di un piano ossessivo e conservatore; il richiamo al Vangelo è molto sentito anche se solo un espediente. La famiglia è importantissima: per un mafioso è la base. Così come l’austerità e la serietà: un uomo d’onore che ha una vita sentimentale troppo agitata, che ostenta ricchezza e libertinaggio è mal visto perché segno di inaffidabilità, chi tenta di suicidarsi in carcere, rischia di non risvegliarsi più perché manca di sicurezza. Confrontarsi con un uomo d’onore è fonte di gloria, ucciderlo o esserne ucciso è onorevole. La mafia non è una società di aiuto alla popolazione più sfruttata, nonostante capi mafiosi abbiano, in passato, eliminato alcuni problemi, ma aiuta solo i suoi membri a spese della società civile. Si è inserita dove lo Stato aveva lasciato lacune formando una sorta di parastato.
Il quarto cerchio è l’organizzazione di Cosa Nostra, che descrive la costituzione attraverso i vari gradi di affiliazione, la divisione territoriale le alleanze, i legami con altre società criminali organizzate (come ‘ndrangheta, camorra, mafia americana e tutte le organizzazioni criminali dell’Est Europeo e del SudAmerica), però da non confondersi con Cosa Nostra in quanto essa è più strutturata e latente. L’affiliazione avviene attraverso un preciso rito d’iniziazione che varia da zona a zona. Si approfondisce Cosa Nostra Americana in quanto discendente diretta di quella siciliana.
Il quinto cerchio è quello dei profitti: i guadagni attraverso il traffico di stupefacenti, le tangenti, gli appalti truccati e altre modalità di guadagno.
Il sesto ed ultimo capitolo è il potere, che è il traguardo, il vero significato, ciò per cui esiste. La lunga “non battaglia” contro lo Stato Italiano: giovane, debole, inconcludente, contorto, incapace di difendere i propri uomini e i cittadini onesti.. “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno. In Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”.

Sostanzialmente credo che Falcone avesse capito cos’è la mafia, non solo macchina di morte e guadagno, ma anche concentrazione e esasperazione di valori propri di una gente che ha trovato nell’indifferenza e nella famiglia una sorta di guscio protettivo contro le angherie degli stati e dei governi susseguitesi sull’isola.
Lo Stato possiede i mezzi per l’eliminazione di questo cancro, ma non può, non vuole farlo seriamente e definitivamente, tampona di tanto in tanto quando la situazione degenera, quando la situazione è troppo esasperata.
La mafia si evolve continuamente, mentre i metodi di lotta ristagnano, nonostante importanti arresti la mafia risulta imprendibile, ma è possibile sconfiggerla: i suoi membri sono uomini e non sono immortali. L’arresto di boss come Luciano Leggio, Totò Riina, Bernardo Provenzano evidenziano che è possibile sconfiggere, debellare la mafia solo se si è uniti, decisi a farlo, arrivando con lo Stato dove prima era assente, riprendendosi i territori persi, conquistando la fiducia della gente dove la fiducia nello Stato mancava.

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