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mercoledì 18 luglio 2012

"Generazione Kalashnikov"

Un antropologo dentro la guerra in Congo

 (JOURDAN Luca, Generazione Kalashnikov 2010, Laterza)


di Laura Volpi

Dal 1996 la Repubblica Democratica del Congo è caduta in una feroce guerra che lascia una scia di milioni di morti ed un paese da ricostruire, non soltanto materialmente, ma anche eticamente e culturalmente. Il Congo è un paese molto ricco: miniere d’oro, tonnellate di legname e diamanti sono solo alcune delle molte risorse di cui dispone. Ma il collasso dello stato e  le politiche di risanamento, imposte dall’inizio degli anni ottanta, hanno notevolmente ridotto la capacità d’azione politica e sociale del Congo. L’impoverimento delle popolazioni ed il palesarsi della disuguaglianza ne divengono conseguenze manifeste. Questa crisi ha prodotto una deficienza di mezzi di costruzione identitaria e di sistemi di socializzazione (ad esempio la scuola) che sfociano in una progressiva marginalizzazione delle classi più giovani. Il vuoto culturale prodotto è stato colmato con una nuova cultura: la cultura della violenza.
 L’antropologo italiano Luca Jourdan sbarcò nel gennaio del 2001 a Libenge, cittadina nella regione dell’Equateur in mano ai ribelli di Jean-Pierre Bemba, per lavorare in una Ong. Una volta giunto a destinazione, però, si trovò immerso in una realtà inimmaginabile: opportunismo, violenza ordinaria ed una moltitudine di bambini che tenevano dei Kalashnikov a tracolla, chiaramente soldati. Perché quei bambini si erano arruolati? Che vantaggi potevano trarre da questa guerra così insensata? La loro personalità era stata plasmata dai soprusi? Le domande che lo assillavano divennero pressanti a tal punto che decise di lasciare l’Ong e si diresse nella regione di  Nord Kivu, la polveriera del Congo, il cuore del conflitto.
Il viaggio di Jourdan diviene, per il lettore, un cammino verso la conoscenza di una realtà tanto dura quanto taciuta:
 l’incontro con voci di adolescenti ambiguamente sospesi in uno spazio a metà strada tra la fanciullezza e l’età adulta, costringe l’antropologo ed i fruitori del suo saggio a considerare criticamente l’etichetta di vittime attribuita, dalle organizzazioni umanitarie e dai mass media, ai giovani militari . Sarà l’effetto ossimorico dell’espressione “bambino-soldato”, o il significato conferito in occidente al termine “infanzia”, ma il discorso prodotto dall’opinione comune valuta questi guerrieri congolesi come figure passive, immerse in una situazione che non possono cambiare. Jourdan, grazie a molte testimonianze, mostra come questa visione possa essere fuorviante: essi sono vittime del vuoto culturale e della povertà, ma non sono necessitati all’arruolamento e non sono privi di “agency”, anzi sono attori sociali che usano le armi e lo status di soldati per nutrirsi, risolvere i problemi materiali più incombenti ed uscire dallo stato di marginalizzazione sociale.
Mostrare le debolezze della “retorica della vittima” non significa affatto colpevolizzare i bambini-soldato o rafforzare un approccio punitivo nei confronti dei giovani che chiedono di essere reintegrati nella società, piuttosto invita a considerare che  l’orientamento acritico vittimizzante porta alla discriminazione di bambini che non hanno scelto la strada della guerra: sono stati creati numerosi progetti per aiutare chi ha impugnato le armi e molti meno per quelli che le hanno solo subite.
Nelle ultime pagine del suo saggio, attraverso le parole intrise di forza e temerarietà di due giovani congolesi, Luca Jourdan  manifesta la convinzione che la capacità d’azione di questi adolescenti debba essere guardata come un bagliore di speranza: da una posizione marginale, sono giunti ad occupare un ruolo di primo piano nel conflitto della Repubblica Democratica del Congo. Si penserà che non ci sia nessuna nota positiva nel combattere una guerra che nemmeno si capisce. Eppure le esperienze di questi bambini sono il simbolo della volontà di conferire alle loro vite significato e l’espressione tangibile delle potenzialità immense dei giovani africani che potranno essere convogliate “in progetti e forme di convivenza positiva”.

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