di Francesco Locatelli
Sono passati
ormai più di dieci anni da Seattle, da Nottingham, da Napoli e da Genova e il
movimento no-global, nato nel concludersi del secolo scorso, può dirsi
definitivamente concluso. Il declino, che deve senz’altro imputarsi al
fallimento della protesta di Genova e ad una progressiva perdita di appoggio
sostanziale da parte dell’occidente, è durato fino al decisivo spegnimento
avvenuto in concomitanza con la crisi del 2008-2009. Dalle ceneri dei “popoli
di Seattle”, sono nati altri singolari movimenti quali gli Indignados e l’originale
Occupy Wall Strett, solo per citarne gli esempi più importanti.
Ma i vecchi,
allora giovani, no-global, che fine hanno fatto? Alcuni di essi sono diventati
più grandi, ma non abbastanza per abbandonare la piazza ed unirsi, più o meno
consapevolmente, ai movimenti di protesta del momento condividendone sempre i
contenuti nuovi e le modalità vecchie. Altri si sono sposati, hanno famiglia e
nella vita di tutti i giorni sono partecipi di scelte critiche che traggono le
radici da quello che è stato il condividere le campagne e i temi contro la
globalizzazione. Altri ancora, la maggior parte forse, non possono più
riconoscersi in un movimento di protesta così radicale come lo sono le
manifestazioni di piazza al giorno d’oggi e, anche per questo, hanno
definitivamente abbandonato la critica al sistema occidentale.
D’altronde i
tempi sono cambiati, se nel 1999 ci si poteva permettere il lusso di
combattere, simbolicamente si intenda, contro il consumo compulsivo, contro lo
sfruttamento della povertà, contro le scarse politiche ecologiche, per la
cancellazione del debito verso i paesi del terzo mondo e contro lo strapotere
delle lobby e dei monopoli di fatto; ora, perso il posto di lavoro e visto
svanire il proprio futuro, non c’è più tempo per gli altri. Ora bisogna infatti
pensare a se stessi e alle tasse, alias prendersela col governo, chiunque esso
sia, o con lo stato, chiunque esso sia, o col resto, dalle banche alla Chiesa.
Se per il
movimento nato e alla fine degli anni novanta e cresciuto nel 2000 esiste un
termine condiviso e auto-determinato per la sua identificazione, ovvero
“no-global” o “popoli di seattle”; al contrario, essendo la protesta contro l’austerità
e contro le conseguenze alla crisi finanziaria ancora in corso, è difficile
trovare un termine per identificare il movimento attivista. Premesso questo, le
maggiori differenze tra i due movimenti sono senz’altro la scala di adesione,
quanto meno passiva, e la condivisione della proposta all’interno della società.
Se nel 2000 molti esponenti della Chiesa soprattutto a livello locale,
attivisti di ogni associazione di volontariato, operai, intellettuali,
progressisti, musicisti, star e talvolta forze di governo si schieravano a
favore delle proposte no-global, specialmente legate al consumo critico,
all’ecologia e volte alla canzone del debito; al giorno d’oggi e difficile che
molti di questi rappresentanti possano condividere un programma comune che portebbe,
come si augurano molti degli attivisti di piazza del giorno d’oggi, ad un
radicale e sensibile mutamento del sistema capitalista basato sulla finanza e
sulle banche. La protesta di oggi sembra quindi essere decisamente più chiusa
verso l’interno di quanto lo fossero i popoli di Seattle, i quali, è da
riconoscere, erano riusciti a conquistare persino i giornali, gli studiosi e in
generale l’opinione comune prima che il potere centrale manipolasse la protesta
architettando in ogni dettaglio il summit del G8 nella città di Genova (è
importante capire quanto Genova fu non solo l’inizio della fine del movimento
in Italia ma anche nel mondo). Al contrario la protesta odierna, che in quanto
tale si discosta dalla politica e si allontana dalla partecipazione civica, non
è in grado di “conquistare”né la maggior parte dei cittadini né quelle realtà
che nel decennio scorso erano “l’anima” della protesta (associazioni cattoliche
e di volontariato).
Anche i
colori, gli slogan, le modalità e la musiche sono cambiate. Se alle manifestazioni
di un tempo si poteva distinguere una varietà incredibile di colori e di
abbigliamento vestiario dei partecipanti quasi come fossero delle feste
arcobaleno, oggi sono per lo più colori scuri, a cominciare dai volantini e
dagli adesivi, mode underground e maschere di Guy Fawkes a dominare
l’attivismo. Gli slogan, che dall’universalmente condiviso e ottimistico
“Another World is possible” hanno decisamente cambiato punto di vista con “Fuck
Austerity” o inni come “La crisi non la paghiamo” che rischiano presto di
trasformarsi in antipolitica e indifferenza civile. Le modalità sono anch’esse
diverse, perché al di là delle frangie violente presenti in tutte le grandi
proteste degli ultimi decenni, i “popoli di Seattle” sembravano essere più
propensi alla non-violenza e alla partecipazione colorata della piazza rispetto
alle dimostranze di oggi che spesso richiamano l’esclusività della protesta
attraverso slogan del tipo “o sei con noi, o sei contro di noi”. Infine la
musica, causa ed effetto del movimento di protesta, ha visto attivarsi sia star
che artisti di strada e ha dato alla luce, almeno in Italia, alla grande
diffusione di generi musicali “alternativi” molto seguiti come lo ska, il punk,
lo ska-punk, il raggaemuffin e il folk. Se a livello internazionale sono stati
Rage Against the Machine, Ska-P o Manu Chao a musicare testi d’ispirazione
no-global, in Italia artisti come Modena City Rambles, Punkreas, Famiglia
Rossi, Bandabardò e una serie infinita di altri gruppi hanno saputo per tutto
un decennio scaldare con rock e ritmi in levare le piazze, le feste e i giovani
di tutta l’Italia cantando e suonando i temi dell’attivismo. Oggi tutto questo
sta lasciando il posto alla cultura hip-pop, unica vera corrente musicale in
grado di confrontarsi con i temi proposti dalle proteste di oggi. Ad eccezione
della crew Napoletana 99-Posse, il rap e l’hip-pop si sono diffusi nel panorama
attivista italiano prendendone la posizione di guida soltanto negli ultimissimi
anni.
L’ultimo
aspetto che merita di essere approfondito sono gli atteggiamenti nei confronti
della rete. I no-global, a loro tempo, ebbero la geniale intuizione di
comprendere l’importanza e le potenzialità della rete e diedero perciò alla
luce ad una lunga serie di siti e portali, utilizzando mail e newsletter come
strumento di scambio di opinioni. Immaginare cosa sarebbe potuto succedere se
le reti di attivismo no-global, sparse e diffuse in tutto l’occidente, avessero
a disposizione gli strumenti che il web 2.0 oggi ci concede non ci è permesso;
però possiamo comprendere come internet e le sue piattaforme di partecipazione
sociale siano lo strumento privilegiato dell’attuale contagio attivista in cui
proprio attraverso la rete avviene lo scambio di idee e di informazioni.
Per saperne di più sulla nascita del
movimento no-global segnalo l’interessante libro “I popoli di Seattle” scritto
dalla Rivista Italiana di Geopolitica esattamente un mese prima del Summit di
Genova (luglio 2001). E’ interessante capire come già prima del’evento di
Genova furono fatte precise previsioni sul risultato della protesta. Questo
aspetto fa molto riflettere sul come il governo italiano sia stato responsabile
della scelta di un location bocciata in partenza e che rende lecito il
chiedersi se sia stata progettata proprio per il fallimento del Social Forum in
favore della violenza.
Nessun commento:
Posta un commento