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giovedì 24 gennaio 2013

Benedetta sia la Legge del branco

di Francesca Introna
Ultimamente ho cercato di rivalutare alcuni miei pregiudizi riguardo a questa strana società in cui viviamo, lasciando per una volta le briglie del cervello e della ragione per affidarmi alle cure dell’animo, e alla fine ho cambiato idea almeno su un paio di cose. La prima è l'omologazione. Tutti disprezzano e criticano il meccanismo per cui le persone portano avanti la loro esistenza in maniera uniforme e sostanzialmente omogenea a quella degli altri: ci si veste tutti nello stesso modo, si frequentano gli stessi posti, si ripetono nelle chiacchiere gli stessi cliché, si costruiscono gli stessi ragionamenti logici. Io non credo che in questo ci sia qualcosa di male. Il punto è che comunque non penso che in altre epoche storiche fosse diverso (chi nel settecento girava per Parigi senza parrucchino? Chi negli anni 60 non credeva nel libero amore? ). Sicuramente i nuovi mezzi di informazione hanno allargato la cerchia di appartenenti alla famiglia del cittadino-consumatore, ma il bisogno di omologarsi non è nuovo, e forse ciò significa che ci caratterizza come esseri umani. Di base c’è probabilmente la paura di sentirsi soli, di ritrovarsi a non far parte di nessun branco, di sentirsi esclusi e privati delle meraviglie che ci regala la compagnia altrui. L’uomo, insegna Aristotele, è animale politico (o sociale), e quindi comprensibilmente rifugge quell'originalità e atipicità del pensiero che è molto spesso dono e condanna. Sono poche, io credo, le persone che possono vantare il parto di un’idea brillante e nuova e, proprio perchè rivoluzionaria, non condivisa o che possono vantare il coraggio di scelte di vita differenti dallo standard. Ma sinceramente non invidio la genialità, perché spesso (non sempre certo) si accompagna o con una stranezza che rende audaci ma che fa sghignazzare gli altri, o con una struggente incapacità di avvicinarsi ai propri simili.

Quello che invece mi irrita è il dictat del “ sii te stesso”, della sincerità e spontaneità come valori assoluti di purezza e innocenza, che tutti i peccati cancellano. Non sopporto ad esempio, quando muovo una critica a qualcuno, di sentirmi rispondere: “sono fatto così” come se fosse una giustificazione, e magari anche “però io almeno lo ammetto”. Il mio disagio di fronte a queste risposte è ancora legato al ragionamento che cercavo di spiegare prima. Se viviamo insieme, in società, nessuno ha il diritto di spezzare le regole su cui un branco si costruisce solo in nome di un prurito personale, di un umore giornaliero. E il fatto che i tuoi sensi spontaneamente ti abbiano suggerito un certo comportamento, e che tu magari l’abbia anche candidamente ammesso, non ti esime dalle tue responsabilità. Ovviamente non sto dicendo che le specialità e le particolarità del carattere di ciascuno debbano essere annullate per far piacere alla massa, per carità. Dico semplicemente che non credo che l’Io ( magari contenente un pensiero originalissimo e brillantemente non omologato) debba necessariamente essere migliore, e dunque prevalere, su un Noi (tutti uguali e pateticamente banali),visto che fino a prova contraria “la felicità è reale solo quando è condivisa” [cit. Christopher MacCandless].

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