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mercoledì 6 febbraio 2013

Intervista all'autrice [#2]: Nadia Agustoni



di Vicky Rubini

Nadia Agustoni (1964, Bergamo) ha pubblicato per Gazebo Edizioni i seguenti libri di poesia: Grammatica
tempo ( 1994) , Miss Blues e altre poesie (1995), Icara o dell’aria ( 1998), Poesia di corpi e di
parole ( 2002), Quaderno di San Francisco (2004) e Dettato sulla geometria degli spazi ( 2006), Il
libro degli Haiku bianchi ( 2007) . Nel 2009 è uscito per “Le voci della luna” Taccuino nero.
Nel 2011 sono usciti Il peso di pianura per “LietoColle”, il Pulcinoelefante Il giorno era luce e la
plaquette Le parole non salvano le parole per i libri d’arte Seregn de la memoria.
Collabora a varie riviste ( QuiLibri, La mosca di Milano, L’area di Broca e altre) e a blog letterari.
E’ redattrice di LPELS “ la poesia e lo spirito”.
Sue poesie sono apparse nella riviste “Poesia” “Pagine”e in altre pubblicazioni.
Si è occupata in saggistica di Etty Hillesum, Elizabeth Bishop, Kazimiers Brandys, Cristina Annino,
Patrizia Cavalli, Gianna Manzini.
Un suo scritto è nel libro: “ Aurelio Chessa, il viandante dell’utopia” Biblioteca Panizzi ( 2007).
Vive e lavora a Bergamo.

L’Autrice si è resa (più) che disponibile a voler collaborare con un’intervista (ahimè) virtuale necessaria per poterla leggere con qualche riferimento in più. Abbiamo la fortuna di ospitare Nadia Agustoni.

V - Si è parlato ultimamente del tuo libro sulla realtà del lavoro in fabbrica, mi riferisco a “Taccuino
nero” Le voci della luna 2009, ma avevi già alla spalle sette libri pubblicati in cui parli di tutt’altro
e molto lavoro di saggistica, critica letteraria. Volevo quindi chiederti, come ti ha influenzato
lavorare in fabbrica rispetto allo scrivere?

A- Non mi ha influenzato, se non per il fatto che ho orari pesanti e quindi poco tempo. Quasi sempre
scrivo, prendo appunti o leggo nelle prime ore del mattino dalle tre alle cinque e poi vado al
lavoro. Nel farsi della scrittura invece sono libera; non mi sento vincolata ai temi del lavoro o a una
condizione. Quanto ho scritto fino ad ora può dare un’idea delle cose che mi interessano.

V - A volte nella tua poesia traspare una vena dolente, a volte usi l’invettiva, a volte c’è rabbia...
oppure usi la descrizione (penso ai paesaggi di Il peso di pianura l’ultimo libro pubblicato
nel 2011) ma leggendo attentamente si capisce che è un mondo che si muove, con squarci
improvvisi, interrogazioni, la tua è una poetica complessa, ma con un punto direi fondamentale,
è interrogativa. La domanda è al centro del tuo dire?

A- Sì, del mio dire e della mia ricerca. C’è l’interrogare il mondo, fin dalla superficie per trarne
insegnamento. Ovvio che la risposta arrivi poi da dentro, e nemmeno sembra risposta a volte.
Ma si risponde con la vita, in tanti modi. Tenere aperte sempre le domande è poi una pratica che
permette di verificare nel tempo e insieme andare più a fondo. Ogni volta si scava e la scoperta
vera è stata, almeno per me, che non c’è quello che chiamiamo buio, è sempre luce. Una luce
diversa che porta all’interiorità e ci fa guardare tutto da capo, ci fa scoprire lo stupore, la nostra
capacità di stupirci magari di cose cui non davamo importanza. E’ quello che chiamiamo buio a
sfidarci, e a mettere alla prova il coraggio.

V - Le Tue Prosa e Poesia, nel Taccuino, ci sono entrambe, una in appendice alla seconda; che
rapporto le lega, quali invece le differenze sostanziali ? Le hai usate anche prima?

A- Le ho usate varie volte, anche in “Icara o dell’aria”, anche se in modo un po' diverso. Non direi
che il discorso vada separato; nel Taccuino ho avuto il dubbio riguardo l’inserimento delle prose
finali; poi mi hanno consigliato di lasciarle lì. La cosa ha senso proprio perché sono collegate
al discorso, lo completano. Scegliere i propri strumenti non è semplice; decidere che un libro di
poesia contenga brani che apparentemente non sono poesia deve comportare una riflessione, ma
se leggi con attenzione ti accorgi che quella prosa è poesia.

V - La Poesia Ti aiuta a sostenere la vita della fabbrica? Funge un po’ da schermo protettivo o è
un punto di vista completamente diverso?

 A- E’ un punto diverso, ma non completamente, perché niente è estraneo alla poesia. E’ quello
che fai di qualunque cosa a dirti se c’è poesia è in azione o meno. Si scrive di ortiche e di rose, ma
non per consolarci, si scrive per dire qualcosa che pensiamo di dover dire.

V - Leggendo la Tua poesia il linguaggio è quello chiaro e comprensibile che si sviluppa per
immagini (molto spesso forti, o fortissime (penso ad esempio “una cappella sistina di ragni e
graffiature”)), e in un’intervista hai detto che se ci riuscissi scriveresTi Poesia anche in dialetto
(posto che non mancano, talvolta magari versi in dialetto); di barocche in Te ci sono solo le viti,
la poesia altisonante, la poesia anche ermetica, non sembrano fare per Te; questione di stile
fisiologico o scelta anche un po’ voluta?

A- Ho detto che forse Taccuino nero in dialetto sarebbe stato più gridato, mi pare di aver detto
così, più o meno. Ma appunto è un libro in cui c’è molto (anche un po' di dialetto) e la cosa
importante è vedere se chi lo ha letto ha colto un po' della realtà del lavoro. Il lavoro subordinato,
specie in mansioni pesanti, fa si che il corpo e la mente ne risentano, ed è difficile in generale
dire come tutto questo, insieme alle condizioni in cui si svolge il lavoro, incida su chi lo fa. Ci sono
voluti tanti e tanti anni per arrivare al Taccuino.
Sul linguaggio posso dirti che c’è un filo che lega i miei libri, lavoro sulla lingua da sempre, c’è chi
mi trovava ermetica all’inizio, oggi molti dicono che uso un linguaggio semplice e per altri ancora è
oscuro... va’ a sapere.

V - Perché scrivi?

A- E’ una domanda difficile, in un certo senso, già però ti ho risposto prima. Scrivo perché sento
che ho qualcosa da dire. Adesso la dico così, tempo fa avrei detto che scrivo anche contro il
dolore; il dolore è già qualcosa da dire, ma non sempre non comunque, solo quando la sofferenza
non è mai solo nostra e ha radice lunghe, profonde, nel mondo. In ogni caso rimando al mio breve
testo “Viaggio e poesia”.

V - Perché i giovani che non aspirano a diventare poeti dovrebbero leggere la Poesia?

A- Leggere vuol dire confrontarsi con testi che ti fanno capire cosa è stato fatto e cosa sta
cambiando nello scrivere poesia. La poesia come autismo, stare solo con se stessi non fa per me,
per esempio.

V- Quali autori viventi consigli loro è perché?

A - Fare nomi è sempre sbagliato, ma per non scappare qualche nome posso farlo, omettendo
gli amici in questo caso, e proprio perché sento che questi pochi nomi hanno qualcosa che vi
può servire: Ida Vallerugo, Mario Benedetti, Giampiero Neri, Franca Grisoni, Fabio Pusterla. Una
piccola scelta (in verità molto piccola) di poeti diversi che nella loro singolarità possono dare l’idea
a chi comincia a leggere poesia, di quello che si muove. Ripeto, una piccola scelta, il meglio
sarebbe procurasi qualche antologia. Sul perché leggerli direi che ognuno di loro tocca un mondo,
vi porta le schegge di un mondo che è anche il vostro, il nostro, ma con gli occhi che hanno loro
e l’intonazione di quel poeta, che è solo sua, ma se ne raggiungi il centro, ti può muovere dentro
un’altra vita che forse non riuscivi a immaginare.

V- Va bene allora credo sia tutto, naturalmente speriamo di poterTi ospitare nuovamente, per l’uscita di una nuova opera. Grazie mille.

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