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lunedì 4 febbraio 2013

Quentin come Stanley?

di Fabio Zoboli

Torno a scrivere qualche riga dopo un lungo silenzio e tento di farmi perdonare cimentandomi in un esperimento: l’analisi comparata di due film che apparentemente hanno ben poco da spartire, ma che il Caso ha voluto che vedessi a brevissima distanza l’uno dall’altro, sorprendendomi con analogie che non balzano all’occhio immediatamente. Il titolo dell’articolo è quindi provocatorio fino ad un certo punto; anche se i puristi del cinema inorridiranno, quello che mi appresto a proporvi è proprio un confronto tra Tarantino e Kubrick: giudicherete voi se sarò convincente o se si tratta piuttosto di un volo pindarico.
Ma veniamo al dunque: le pellicole che m’hanno acceso la lampadina sono state rispettivamente Django Unchained e Full Metal Jacket. La seconda è un classico di ogni cinefilo, datata 1987 ma sempre attualissima, nota anche da chi non ha avuto ancora il piacere di vederla per personaggi ormai diventati icone, come il sergente Hartman o il soldato Palla di Lardo. Django invece è l’ultima fatica di Tarantino, pertanto i dibattiti della critica sono tuttora in atto, anche perché lo stesso regista, già ai tempi dell’assegnazione della Palma d’Oro a Cannes per Pulp Fiction, aveva sostenuto: “Il mio cinema o si ama o si odia”.
Non voglio forzare la mano e trovare a tutti costi corrispondenze, ma l’aspetto più evidente è il carattere di denuncia sociale di queste due opere: da un lato la schiavitù e dall’altro l’addestramento militare e la guerra del Vietnam, temi che peraltro non sono mai mancati nella storia del cinema, ma che con questi due registi sono stati affrontati con una tagliente ironia, a tratti proprio un black humour, che li ha resi inconfondibili.
Altra somiglianza: la maniacale attenzione per i dialoghi, teatrali, a volte quasi surreali, ma sempre capaci di esaltare gli attori e catalizzare l’attenzione dello spettatore. Il tutto amalgamato dall’oculata scelta della colonna sonora, capace di smorzare o rimarcare il pathos a seconda delle esigenze precipue. E non è un caso che in queste settimane in testa alla Classifica Album iTunes si è insediata stabilmente proprio la Quentin Tarantino’s Django Unchained Soundtrack, che propone, tra gli altri, musiche di Ennio Morricone.
Non che Kubrick fu da meno inserendo pezzi quali Paint it black dei Rolling Stones, These Boots Are Made For Walkin’, recentemente tornata alla ribalta per la rivisitazione moderna dei Planet Funk o Surfin’ Bird dei Trashmen.
Ma probabilmente vi starete chiedendo perché non ho ancora citato uno dei tratti distintivi della filmografia di Tarantino: il copioso flusso di sangue. Ebbene, anche in Django il cineasta non si è risparmiato, anche se dissento da coloro che l’hanno giudicato splatter, perché non ha nulla a che vedere con le pellicole dell’amico regista Rodriguez, Machete e Dal tramonto all’alba tanto per citarne due; certo, il realismo e la crudezza delle immagini sono assolutamente caratteri salienti anche di quest’opera, ma sono funzionali all’intento di spezzare la tensione emotiva di dialoghi altrettanto drammatici. Anche in Full Metal Jacket il sangue e le grida di dolore dei Marines in Vietnam non sono affatto tralasciati: quanti film di guerra invece trascurano questi “dettagli”? Scene come i colpi del cecchino che trucida, in senso letterale, vari soldati americani o il tragico epilogo dell’addestramento della recluta Palla di Lardo sono però fondamentali tasselli per trasmettere allo spettatore il messaggio di Kubrick.
Eppure entrambi questi lungometraggi, forse per instillare un briciolo di speranza laddove morte e sofferenza sono costanti, hanno un lieto fine, seppur francamente farsesco, volutamente per stigmatizzare l’assurdità della vita: la pirotecnica esplosione con cui Django conclude la sua vendetta e i militari in Full Metal Jacket che camminano di notte nella città in fiamme cantando la Marcia di Topolino.
Detto questo, non voglio trovare ulteriori analogie forzate, anche perché Kubrick ha dimostrato di essere un regista a tutto tondo nella sua lunga carriera, riuscendo ad esprimersi ai massimi livelli in quasi tutti i generi in cui si è cimentato con la cinepresa, mentre da questo punto di vista lo stile di Tarantino è molto più caratterizzato ed univoco. È altrettanto vero che il filmaker e storico cinematografico Peter Bogdanovich ha definito Quentin “il regista più influente della sua generazione” e, tenendo conto della sua tuttora giovane età, sono fiducioso che di strada ne percorrerà ancora molta e in futuro possa scrivere altre pagine di grande cinema.

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