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mercoledì 5 giugno 2013

Il Grande Gatsby

di Fabio Zoboli
Dopo un’attenta analisi di quali novità cinematografica valesse la pena visionare e dopo una serie di trailer tutt'altro che incoraggianti, urge una premessa doverosa: il mondo del cinema non sa più dove sbattere la testa. Tra un sequel, un prequel, un remake o l'ennesimo improbabile film apocalittico di pseudofantascienza (il solo pensiero di includere pellicole scadenti nello stesso genere dei grandi miti del passato come Blade Runner mi fa accapponare la pelle), la fantasia pare aver esaurito da tempo l'antico splendore. Per non parlare poi della riproposizione sul grande schermo dei classici Disney in versione remastered... come se non ci bastasse vedere Balto ripresentato in tv ad ogni Natale! Ma dato che non posso limitarmi a criticare il panorama artistico-culturale per tutta la recensione, ho scelto quale sarà l'argomento di oggi: un tentativo, se non altro coraggioso, di rivedere in una luce contemporanea un film del passato.

Il Grande Gatsby probabilmente sarà un titolo che ai giovani non evocherà alcun ricordo, ma provate a chiedere ai vostri genitori se non richiama alla mente un certo Robert Redford e una tale Mia Farrow; e magari scoprirete, come ho potuto constatare in prima persona con immane stupore, che nella vostra libreria di casa è stato conservato gelosamente anche il vinile con la colonna sonora, datata 1974! Ma altrettanto probabilmente le generazioni che ci precedono non vedrebbero di buon occhio l'odierna opera di Baz Luhrmann, un regista che si ama o si odia e che ha già abituato il pubblico ad uno stile insolito e provocatorio; infatti anche nelle sue precedenti fatiche, Romeo+Juliet e Moulin Rouge, ciò che colpisce è la vivacità dei colori, la frenesia dei ritmi, la rapidità con cui la macchina da presa si sposta da una scena all'altra… peculiarità che non sono gradite a tutti!

Anche in questo caso il cineasta conserva intatto il suo stile, ma mi dissocio da chi pensa che strida con l'ambientazione del 1922 o che lo sfarzo e la teatralità siano fini a se stessi: tutt'altro. La capacità di fotografare un'epoca senza rendere la pellicola noiosa e soprattutto senza uscire dai binari della storia dei protagonisti non era impresa semplice, ma credo che l'obiettivo sia stato raggiunto egregiamente. Anche perché la seconda parte, decisamente più drammatica, propone un ritmo meno incalzante e atmosfere più cupe, a rimarcare una visione nient’affatto manichea del mondo; anche i singoli personaggi sono intrisi di vizi e virtù, che li rendono costantemente ambigui e sfaccettati, mai semplici macchiette o col ruolo predefinito di eroi o antagonisti, discostandosi dai canoni fiabeschi di Propp che molto spesso il cinema ci propina.
Detto questo, la sceneggiatura non prevede clamorosi colpi di scena e senza voler svelare troppo la trama, lo spettatore capisce ben presto che non si tratta di una commedia romantica ma piuttosto di una complicata storia d'amore che trova analogie con la tragedia shakespeariana con cui Luhrmann si era già confrontato agli esordi della sua carriera.Il cast è stellare (Di Caprio sempre meritevole di una candidatura all'Oscar, ma anche Tobey Maguire riesce a non sfigurare, sfilandosi finalmente l’ingombrante costume da Spider-Man), la fotografia sfavillante, i costumi curatissimi, la colonna sonora imponente (e forse a tratti impudente, quando mischia il Charleston a brani moderni della cultura hip-hop, interpretati dal rapper Jay-Z).

Quasi tutto impeccabile insomma, forse qualche perplessità sulla trama a tratti improbabile, ma comunque capace di trasmettere un messaggio attualissimo, con cui il regista si congeda:
“Gatsby credeva nella luce verde, nel futuro orgiastico che anno dopo anno si ritira davanti a noi. Ieri ci è sfuggito, ma non importa: domani correremo più forte, allungheremo di più le braccia […] Così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato”.
Il miraggio del sogno americano, l’arrivismo come filosofia di vita, il culto effimero dell’apparire sono temi che dovrebbero farci riflettere, perché animano tuttora la società contemporanea.

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