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mercoledì 10 luglio 2013

Non c'è tempo. In guerra non ce n'è.

di Francesco Mancin
Questo articolo non vorrei e non dovrei scriverlo. Delle persone si sentiranno chiamate in causa, e non è poi così giusto trasferire sé stessi sull'ufficiosità di un blog. Non se ne rammarichino: essi mi offrono spunti, non aperitivi di polemiche. 
Quello che in Italia successe dal '43 al '48, quando entrò in vigore il testo costituzionale, rimarrà incancellabile, così come le guerre puniche o le Termopili. Quello che in Italia successe può essere oggi visto come mera cronaca, come momento di oscurità e di violenze, come estremo atto di coraggio o di codardia, come una guerra civile. Così, come per ogni epocale avvenimento della storia, qualsiasi generazione successiva si è rapportata con quei fatti secondo adattamenti differenti dei medesimi valori della Memoria, della Verità, della Necessità dell'uso della forza. In sintesi, ognuno di noi si è confrontato con il problema della "quantità" di Dignità da esigere o da riconoscere a chi visse, decise e combatté allora.
Oggi leggo che "[...] in tempi di guerra non c'è tempo per pensare alla dignità e bla bla bla[...]". Il BlaBla mi fa un po' male: è come se gli sforzi di crescita sociale si possano fare solo nei momenti di pace, è come se ragionare sulla necessità dei diritti sia una cosa da benestanti e da benpensanti. Mi ricorda un De Niro che urla "sei solo chiacchiere e distintivo". Capone non fu ammazzato ma sconfitto in tribunale.
Quanto alla dignità, è vero. In quella guerra non ci fu il tempo, per la dignità. In guerra ci furono le gerarchie, ci furono le pene capitali per  i disertori,  ci fu l'alcool annebbiante nelle trincee francesi e russe, i bombardamenti annunciati a mala pena dalle sirene. In guerra la dignità del singolo fu calpestata dai cingoli, dai movimenti di carri ordinati da pochi pazzi lucidi, che ebbero l'intelligenza e la vigliaccheria di creare un potere oppressore, indegno. Indegno. Al punto che nessuno, se non altri pazzi nostalgici, l'avrebbe più preso ad esempio negli anni futuri. E nessuno avrebbe più dovuto farlo nemmeno nei mesi successivi agli avvenimenti del Gran Sasso o di Dongo. Da allora fu guerra civile e guerriglia contro i tedeschi. Due situazioni in cui il tempo per pensare alla dignità c'era. Uomini non liberi combatterono per liberarne altri ed il popolo tutto, e subito si dimostrarono liberi. Nessun regime e nessun generale romano li costrinse, e la circostanza che la lotta partigiana si distinse attraverso azioni paramilitari la imputo a necessità, unione, appoggio del regio esercito scioltosi in alcuni territori della penisola e della Grecia.
La storia partigiana e i suoi personaggi affascinano per la loro umanità esemplare, nel senso di dedizione alla causa e di sacrificio. Ma nel contempo costringono, oggi che il significato di umanità si è arricchito ed evoluto, ad una seria riflessione sulla Violenza.
Tra il 1969 ed il 1977 in Italia le bordate tra i manifestasti e la polizia o il "potere costituito" non arrivarono mai alla stessa legittimazione di cui gode il biennio della liberazione: i concetti di Necessità, di Lotta, di Oppressione erano già cambiati, e nelle piazze non si trovavano gli stessi metodi. Di dignità se ne parlò fin troppo, ma solo della propria. Di lotta se ne parlò a sproposito, manco sotto i caschi dei poliziotti a Roma ci fossero ancora i tedeschi.
Se non si fosse evoluto il concetto di dignità, dovremmo considerare Carlo Giuliani un martire che si è sacrificato per la nostra libertà: Carlo è una vittima, un omicidio di Stato, ma non un eroe. Oggi gli riconosciamo la giusta dignità di ragazzo non tra i "tranquilli", come la riconosciamo al suo sparatore troppo giovane, senza linciarlo e appenderlo in Piazzale Loreto. Giustamente oggi si chiede la celebrazione di un giusto processo.
Nella storia recente la nostra società è stata in grado di istituire cosiddetti "poteri costituiti" come il Tribunale penale per la Ex-Yugoslavia, che ha processato criminali anche ben peggiori dei fascisti del '45: un grande sforzo, ci fu il tempo, lo si trovò per scrivere alcune delle pagine migliori della Giustizia.
Se quindi la Dignità necessita di tempo, non credo che l'eccidio di Rovetta sarebbe stato necessario per perseguire la Giustizia. Cito:
Il 28 aprile [1945, a liberazione avvenuta, n.d.r.] arrivarono in paese altri gruppi partigiani (la 53ª brigata Garibaldi, La Brigata Camozzi e le Fiamme Verdi), per cui gli accordi del CLN erano irrilevanti. Il Ten. Panzanelli tentò di far valere lo scritto in suo possesso con le garanzie sottoscritte, ma il foglio con le firme gli fu strappato di mano e calpestato. Il Panzanelli fu ucciso per primo, poi i militi vennero prelevati a piccoli gruppi di cinque dai partigiani e condotti al cimitero di Rovetta. I 43 militi, di età compresa dai 15 ai 22 anni, vennero fucilati.
Dignità e Giustizia sono aspetti inscindibili della Libertà: la libertà dai torti, dalle strumentalizzazioni, dalle semplificazioni, dalle generalizzazioni.
In tempo di guerra fratricida il tempo si deve trovare per pensare a tutto quel blabla che possa salvarci dall'essere barbari, dai rimorsi, dalle critiche e dai revisionismi dei posteri.
Il revisionismo è frutto della stessa ignoranza con cui si fa di tutta l'erba un fascio. Insomma: di tutto il Fascio è giusto predicare il peggio, anzi è doveroso augurarselo. Delle persone non solo è immorale, ma perfino illogico.
Ai bambini che leggono Primo Levi si propone educazione, ai detenuti o ai colpevoli si chiede Rieducazione, non il sangue versato.

1 commento:

Unknown ha detto...

Non potrei essere più d'accordo... Spesso si cade nell'errore di etichettare come immacolati liberatori tutti i partigiani, dimenticandosi che anch'essi, umani, hanno commesso dei crimini e legittimandoli. Utilizzare la foto del Duce appeso per i piedi come simbolo della liberazione non solo svilisce il significato della stessa, ma dimostra di non averla realmente raggiunta: ti liberi di un dittatore ma non dei non-valori che rappresentava. Scendi al suo livello. Vedere un punto nero a spararvi a vista è l'azione più fascista che un sedicente anti-fascista possa inneggiare o compiere.

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