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martedì 18 febbraio 2014

Dallas buyers club



di Fabio Zoboli

Intenso e attuale, ma forse proprio per questo pericoloso.
Così si può riassumere il film di Jean-Marc Vallée, interpretato dal candidato all'Oscar come miglior attore 2014 Matthew McConaughey. Una statuetta che meriterebbe senz'altro per la perizia con cui ha rappresentato il suo personaggio, un cowboy texano del 1985, omofobo e vizioso, a cui diagnosticano l'AIDS, con una prognosi di appena 30 giorni di vita. Pregevole la cura di ogni minimo dettaglio: dal vestiario all'aspetto fisico, con un graduale dimagrimento che rende ancora più realistica la progressione della malattia.
   Ma veniamo alla trama, tratta dalla storia vera di Ron Woodroof: la lotta contro la morte da un lato e la FDA americana dall'altro, per utilizzare trattamenti non approvati e non commercializzati negli Stati Uniti, al fine di posticipare l'inevitabile exitus che sopraggiunge dopo 7 anni dall'iniziale diagnosi. Encomiabile il cambiamento di carattere del protagonista, che da rozzo donnaiolo dedito all'alcolismo e all'abuso di cocaina, subisce la stigmatizzazione dei suoi amici e colleghi a causa dell'infezione che in quegli anni veniva considerata appannaggio solo di omosessuali ed eroinomani e si avvicina proprio ad un membro di quella comunità che fino a quel momento aveva disprezzato: un transessuale altrettanto sieropositivo, interpretato dal candidato all'Oscar come migliore attore non protagonista, Jared Leto. La catarsi di Ron in realtà inizia al solo scopo di lucro, ossia tentare di vendere medicine alternative ai pazienti malati di AIDS, a cui il sistema sanitario americano proponeva solo la sperimentazione del primo farmaco antiretrovirale, nonché il più discusso: l'AZT.

   Non la si può certo definire una sceneggiatura faziosa, perché riporta dati storici in modo inattaccabile, ma il pericolo a cui mi riferivo in apertura sta nel messaggio che può giungere allo spettatore: le case farmaceutiche disposte a tutto pur di vendere il proprio prodotto, i medici quasi collusi e indifferenti al dolore dei pazienti e il protagonista benefattore che dà speranza ai malati. Infatti, nelle scene in cui questi ultimi manifestano per avere accesso alle cure alternative, non ho potuto fare a meno di trovare un parallelismo con il caso Stamina,in cui un perfetto nessuno si assurge a Salvatore della Patria, facendo leva sull'ignoranza e la disperazione della gente, con metodi non scientifici e con l'unico scopo di ottenere profitto. Non so in quanti conoscano nel dettaglio il caso, trattato in modo demagogico dai mass media, in cui per settimane sembrava uno scandalo che il metodo "miracoloso" fosse stato bloccato per volontà di un tribunale; questo link può esservi utile per farvi la vostra personale opinione, con l'ausilio di un adeguato background.
   Nessuno può giudicare i malati e i loro familiari nella lotta per alimentare ogni speranza: è per questo che bisogna smascherare quanto prima gli "stregoni" di turno. Non trovo infatti altre parole per descrivere il "dott." Vannoni (dottore sì, ma non in medicina, in quanto laureato in Lettere e Filosofia), il cui caso è ben diverso dal protagonista della pellicola: non è lui stesso un malato disperato, ma solo un ciarlatano ben conscio di esserlo, non a caso indagato per tentata truffa.
  Tornando al film, voglio solo precisare un ultimo aspetto: negli anni in cui si sviluppa la narrazione la terapia antiretrovirale era ad uno stadio embrionale e l'AZT veniva utilizzato a dosaggi troppo alti, pertanto con eccessivi effetti collaterali; il cocktail farmacologico che si usa ancora oggi (seppur rivisto e corretto) è stato introdotto solo nel 1996. Nel frattempo i pazienti morivano come mosche, ma non certo per colpa dell'AZT e delle case farmaceutiche, che hanno di sicuro come obiettivo il profitto ma che se uccidessero potenziali futuri "clienti" non sarebbero certo molto lungimiranti! Sia chiaro, la medicina non è la panacea universale, ma si fonda su una rigorosa ricerca e sperimentazione, anche se mi rendo conto che a volte possa sembrare crudele: nessuno vorrebbe essere in quel 50% di pazienti che riceve il placebo quando viene proposto un nuovo trattamento non validato, ma senza questi protocolli ferrei sarebbero sul mercato farmaci tossici a discapito dell'intera collettività.
  Mi sono sentito in dovere di approfondire il tema e proporvi una recensione più prolissa del solito, che esula dalla cinematografia e abbraccia scienza e attualità: non sono forse questi gli ingredienti che rendono un film capace di incollare lo sguardo allo schermo? Senza ombra di dubbio, ma sempre con occhio critico.

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