di Domiguel Radesca
Decido di intervistare il mio amico Abubakar* in un luogo informale. Siamo in un locale con la musica mediamente alta che ci permette di non essere ascoltati dagli altri pochi presenti.
Non riesco neanche ad accendere il pc portatile che già si comincia a parlare. Fumiamo una sigaretta per stemperare un po' la tensione e rientriamo.
Non riesco neanche ad accendere il pc portatile che già si comincia a parlare. Fumiamo una sigaretta per stemperare un po' la tensione e rientriamo.
Da dove cominciamo a raccontare la tua storia?
A. 3 agosto del 2005. Sono i giorni di un colpo di stato in Mauritania. Incontro un amico durante una manifestazione politica. Mi dice che hanno bombardato casa mia. Gli chiedo se qualcuno è vivo. Mi dice che sono morti tutti. Mio padre e tutta la mia famiglia.
Era la prima volta che succedeva qualcosa del genere alla tua famiglia?
A. No, anzi... potremmo dire che hanno approfittato del colpo di stato per risolvere problemi vecchi. Un mio zio ad esempio è stato arrestato già nel '82 e nessuno ne ha saputo più nulla. Mio padre andava sempre a chiedere dove fosse, cosa fosse successo, ma nessuno gli ha mai risposto né detto nulla. Dava fastidio cercare di sapere quelle cose.
Come era invece la tua di vita in Mauritania?
A. Brutta. Bruttissima. Non era vita. Avevo problemi di razzismo. Mi hanno arrestato almeno tre volte. Nel mio paese quando hai un qualsiasi problema con un arabo, tu finisci in prigione e non puoi nemmeno difenderti o parlare. Mio padre mi diceva di stare attento, soprattutto agli arabi che si credono sempre superiori...
In mauritania i neri sono considerati come schiavi. Io dicevo “Io non sono uno schiavo” e per questo mi hanno fatto problemi.
Una volta sono finito in carcere perché mi hanno rubato il cellulare, lasciato a caricare dove un arabo mi aveva detto di lasciarlo. Ho chiesto all'arabo dove fosse il mio telefono o se sapesse chi me lo aveva rubato. Siccome in Mauritania non abbiamo diritti noi africani, lui ha chiamato la polizia e sono rimasto dentro per 3 mesi.
Dopo che ti hanno liberato cosa hai fatto?
A. Ho ricominciato a lavorare nel cantiere come muratore. Finché il padrone non ha smesso di pagarmi. Allora sono andato da lui a chiedergli i soldi che mi doveva. E lui mi ha detto che ero come uno schiavo, dovevo lavorare senza essere pagato. Allora ho smesso di lavorare ed ogni giorno andavo da lui a chiedere di pagarmi. Un giorno mentre andavo per l'ennesima volta da lui a chiedergli i miei soldi ho scoperto che aveva assunto altri africani per lavorare in cantiere. Ho spiegato a loro quello che era successo, che avevo lavorato e che il padrone non mi pagava e che quindi non lavoravo. E allora lui ha chiamato la polizia. Come le altre volte non ho potuto dire niente. Nessun diritto. Mi hanno portato direttamente in carcere. Ci sono rimasto per tre giorni. Quando mi hanno rilasciato mi hanno minacciato, dicendomi che la prossima volta che fosse successo qualcosa mi avrebbero mandato nella prigione di ********. La peggiore.
Non esistevano associazioni o qualcuno che provasse a difendere i diritti dei neri?
A. Non lo so. Io sono entrato in un partito politico chiamato APP perché sapevo che mi avrebbero difeso in quanto membro del partito. Al di là del fatto che sei africano o arabo. Mi chiedevano in cambio di questa “protezione” di fare propaganda trai miei amici e conoscenti. Dicevano che se avessero vinto loro poi ci avrebbero aiutato. E per questo motivo il giorno del colpo di stato mi trovavo in manifestazione.
Eccoci tornati al punto di partenza, proseguiamo ora per ordine: cosa hai fatto dopo quello che era successo?
A. sono andato subito a prendere i miei risparmi nel negozio di un amico dove li tenevo in caso di bisogno. Erano almeno 100'000 **** (la moneta ufficiale della Mauritania). Ho fatto in macchina Mali, Burkina Faso, Niger. Dovevamo arrivare fino in libia ma la macchina si è rotta. Qui non ero più da solo. Abbiamo camminato 15 giorni nel deserto. Ho visto con questi miei occhi morire 4 persone che conoscevo. Non li abbiamo potuti neanche seppellire. Li abbiamo lasciati lì, nella sabbia. Ho bevuto la mia pipì. Per fortuna e grazie a dio, prima di arrivare in libia abbiamo trovato un albero di datteri, come quelli che si mangiano la sera per rompere il ramadan.
Come è stato l'arrivo in Libia?
A. sono arrivato in libia praticamente morto. Non avevo soldi e non lavoravo. Per fortuna e grazie a dio però ero vivo ed alcuni fratelli, africani come me, mi hanno aiutato. Mi hanno dato vestiti e cibo. Ho visto alcune cose nella mia vita in libia che non posso raccontare a nessuno. Le tengo sotto i miei occhi.
La tua vita, una volta in Libia, come è proseguita?
A. lavoravo ancora come muratore, vivevo con pochi soldi perché quasi tutti quelli che guadagnavo li mandavo a mia moglie che era rimasta a casa con i nostri due figli. Ma era anche questo un paese razzista. E gli immigrati senza diritti e trattati male.
Sempre nella mia testa c'era arrivare qui in Europa.
A. Ho ricominciato a lavorare nel cantiere come muratore. Finché il padrone non ha smesso di pagarmi. Allora sono andato da lui a chiedergli i soldi che mi doveva. E lui mi ha detto che ero come uno schiavo, dovevo lavorare senza essere pagato. Allora ho smesso di lavorare ed ogni giorno andavo da lui a chiedere di pagarmi. Un giorno mentre andavo per l'ennesima volta da lui a chiedergli i miei soldi ho scoperto che aveva assunto altri africani per lavorare in cantiere. Ho spiegato a loro quello che era successo, che avevo lavorato e che il padrone non mi pagava e che quindi non lavoravo. E allora lui ha chiamato la polizia. Come le altre volte non ho potuto dire niente. Nessun diritto. Mi hanno portato direttamente in carcere. Ci sono rimasto per tre giorni. Quando mi hanno rilasciato mi hanno minacciato, dicendomi che la prossima volta che fosse successo qualcosa mi avrebbero mandato nella prigione di ********. La peggiore.
Non esistevano associazioni o qualcuno che provasse a difendere i diritti dei neri?
A. Non lo so. Io sono entrato in un partito politico chiamato APP perché sapevo che mi avrebbero difeso in quanto membro del partito. Al di là del fatto che sei africano o arabo. Mi chiedevano in cambio di questa “protezione” di fare propaganda trai miei amici e conoscenti. Dicevano che se avessero vinto loro poi ci avrebbero aiutato. E per questo motivo il giorno del colpo di stato mi trovavo in manifestazione.
Eccoci tornati al punto di partenza, proseguiamo ora per ordine: cosa hai fatto dopo quello che era successo?
A. sono andato subito a prendere i miei risparmi nel negozio di un amico dove li tenevo in caso di bisogno. Erano almeno 100'000 **** (la moneta ufficiale della Mauritania). Ho fatto in macchina Mali, Burkina Faso, Niger. Dovevamo arrivare fino in libia ma la macchina si è rotta. Qui non ero più da solo. Abbiamo camminato 15 giorni nel deserto. Ho visto con questi miei occhi morire 4 persone che conoscevo. Non li abbiamo potuti neanche seppellire. Li abbiamo lasciati lì, nella sabbia. Ho bevuto la mia pipì. Per fortuna e grazie a dio, prima di arrivare in libia abbiamo trovato un albero di datteri, come quelli che si mangiano la sera per rompere il ramadan.
Come è stato l'arrivo in Libia?
A. sono arrivato in libia praticamente morto. Non avevo soldi e non lavoravo. Per fortuna e grazie a dio però ero vivo ed alcuni fratelli, africani come me, mi hanno aiutato. Mi hanno dato vestiti e cibo. Ho visto alcune cose nella mia vita in libia che non posso raccontare a nessuno. Le tengo sotto i miei occhi.
La tua vita, una volta in Libia, come è proseguita?
A. lavoravo ancora come muratore, vivevo con pochi soldi perché quasi tutti quelli che guadagnavo li mandavo a mia moglie che era rimasta a casa con i nostri due figli. Ma era anche questo un paese razzista. E gli immigrati senza diritti e trattati male.
Sempre nella mia testa c'era arrivare qui in Europa.
Quando hai deciso di arrivarci in europa e come?
A. luglio 2007.
Un altro colpo di stato in Mauritania. Mia moglie scappa assieme ai miei figli in qualche altro paese confinante. Forse il senegal, forse un altro. Da quel giorno non ci siamo più sentiti. Conosco alcuni che preparano le barche per l'Italia. Pago 1000 dollari per imbarcarmi. Penso “vivo o morto nel mare non importa. Qui sono solo e sono morto”. Viaggio 4 giorni e vomito tutti e quattro. Non sono abituato al mare.
Arrivato a Lampedusa cosa è successo?
A. Una cosa importante - quelli che mi hanno imbarcato mi avevano detto, che se entravo in Italia, dovevo buttare i documenti e non dire il mio nome né il mio paese altrimenti la polizia italiana mi avrebbe rimandato indietro.
Così l'ho fatto e questo è stato l'errore più grande. -
Con questa finta identità mi hanno fatto fare la richiesta di asilo politico. Io non sapevo cosa fosse l'asilo né cosa bisognasse dire. In africa, da bambino ho passato sei anni in Senegal come rifugiato di guerra insieme alla mia famiglia, ma non c'era nessuno che ti diceva che tu eri in asilo politico.
Hai fatto la richiesta di asilo politico con l'identità falsa ed una storia inventata. Cosa ti hanno risposto?
A. Sono rimasto nel centro di Lampedusa due mesi. Quando hanno detto di no alla mia richiesta di asilo mi hanno dato un foglio di via, mi hanno detto che avevo 5 giorni per andare via dall'Italia e mi hanno chiesto dove volevo andare, che mi avrebbero dato il biglietto del treno. Ho detto Bergamo e così sono arrivato qui.
Siamo a settembre 2007. cosa ti succede in quel periodo?
A. Non ho i documenti quindi non posso lavorare. Conosco alcuni senegalesi che “lavorano” al parcheggio. Vendono le robe, portafogli, cinture, accendini, e fanno parcheggiare le macchine di quelli che vanno all'ospedale. Compro anche io un po' di robe e faccio anch'io il parcheggio.
A novembre, meno di due mesi che sono qui, mi fermano i vigili mentre sono al parcheggio. Prendono le mie cose da vendere e mi portano in questura. Mi chiedono i documenti. Non li ho e mi chiedono il nome. Gli dico il mio nome vero. Mi dicono che c'è un problema, che le mie impronte sono già con un altro nome. Passo la notte dai vigili e la mattina mi portano in tribunale. Non so niente di quello che dicono né di quello che ho firmato.
Mi danno i fogli e mi fanno andare via. Li ho buttati via.
- come i documenti... - prosegui pure, non volevo interromperti.
A. conosco un amico che vive a Roma, conosceva la mia storia (quella vera), e quando gli ho detto dei vigili e del tribunale mi ha detto di andare da lui a Roma per fare l'asilo politico con la mia storia vera e il mio nome vero. Mi ha aiutato lui a farla. Poi sono andato in questura sempre a Roma per mettere le impronte. Mi hanno dato la ricevuta e l'appuntamento per ritirare il permesso di soggiorno dopo un mese.
Nel frattempo che aspettavo l'appuntamento sono tornato a Bergamo. Ero al parcheggio quando mi ha fermato la finanza. Ma questa volta avevo la ricevuta. Loro l'hanno controllata, mi hanno detto che c'era il problema del nome nelle mie impronte ma che comunque “Sei regolare... non possiamo farti niente”.
'fiù... almeno questa volta niente problemi. Come va l'appuntamento?
A. Dovevo solo ritirare il permesso, ma hanno visto che avevo problemi con il tribunale di Bergamo. Dovevano verificare. Ho fatto la notte in questura. La mattina dopo mi sono messo in fila per ritirarlo. Chiamano tutti per nome e cognome. Chiamano anche me, mi fanno entrare in una stanza, gli ho dato la ricevuta. Mi hanno portato direttamente in galera Rebibbia.
Motivo?
A. sempre il problema dei documenti, condannato a 5 mesi e 10 giorni. Ma in galera Rebibbia ne ho fatti solo 4 mesi e 28 giorni. Perché gli ultimi 12 giorni sono riuscito a farli agli arresti domiciliari a casa di un bravo senegalese di Bergamo che ha fatto lui tutte le pratiche con il giudice e la galera. Quando ho finito la pena sono andato dai carabinieri per firmare che non ero più in arresto.
E la tua richiesta di asilo politico che fine ha fatto?
Nel frattempo che aspettavo l'appuntamento sono tornato a Bergamo. Ero al parcheggio quando mi ha fermato la finanza. Ma questa volta avevo la ricevuta. Loro l'hanno controllata, mi hanno detto che c'era il problema del nome nelle mie impronte ma che comunque “Sei regolare... non possiamo farti niente”.
'fiù... almeno questa volta niente problemi. Come va l'appuntamento?
A. Dovevo solo ritirare il permesso, ma hanno visto che avevo problemi con il tribunale di Bergamo. Dovevano verificare. Ho fatto la notte in questura. La mattina dopo mi sono messo in fila per ritirarlo. Chiamano tutti per nome e cognome. Chiamano anche me, mi fanno entrare in una stanza, gli ho dato la ricevuta. Mi hanno portato direttamente in galera Rebibbia.
Motivo?
A. sempre il problema dei documenti, condannato a 5 mesi e 10 giorni. Ma in galera Rebibbia ne ho fatti solo 4 mesi e 28 giorni. Perché gli ultimi 12 giorni sono riuscito a farli agli arresti domiciliari a casa di un bravo senegalese di Bergamo che ha fatto lui tutte le pratiche con il giudice e la galera. Quando ho finito la pena sono andato dai carabinieri per firmare che non ero più in arresto.
E la tua richiesta di asilo politico che fine ha fatto?
A. sono tornato a Roma da un avvocato per farla. Ma mi ha detto che dovevo farla qui a Bergamo perché vivevo e lavoravo qui. Così la questura di Roma mi ha lasciato un foglio dove c'era scritto che potevo venire a Bergamo a farla. Mi hanno rimandato 4 volte l'appuntamento. Ma neanche questa volta è andata bene.
Non vorrai dirmi che anche questa volta...
A. Dalla questura questa volta, con la macchina della polizia, mi hanno portato a Milano, in un centro, quello dove rimandano indietro le persone. Ma io ero lì per fare l'asilo politico. Era come una galera. Anzi era una galera proprio. Ero lì per il problema del nome falso. Finalmente ho fatto una vera commissione. Ho parlato 5 ore di fila. Dalle dieci della mattina fino alle tre del pomeriggio.
Ma non mi hanno creduto e mi hanno dato il negativo. Avevo 30 giorni per fare ricorso.
Così hai fatto ricorso, esatto?
A. Certo. Tornato a Bergamo sono andato all'ufficio della Cgil. Mi hanno spiegato le cose, le leggi e tutto il resto. Ma io volevo un avvocato e ne ho trovato uno. Anzi una avvocatessa per essere precisi. Le ho dato tutti i documenti che avevo in mano, le ho raccontato tutta la storia, quella vera, come sto facendo con te adesso. Ma lei non ha fatto ricorso con questa storia. Se ne è inventata un'altra. Pensava fosse una via più facile per prendere i documenti dire che ero gay. Io, che ho una moglie e due figli, di cui non so più nulla.
Da come ne parli immagino non sia andato a buon fine. Sbaglio?
A. no, infatti. Il ricorso è andato male. Adesso però ho un altro avvocato che ne ha fatto un altro di ricorso, al tribunale questa volta. È stato bravo, ha messo tutta la mia storia precisa. Ha messo anche le informazioni del mio paese e delle persone che muoiono in Mauritania. È andato già una volta a parlare con i giudici. Ma adesso vogliono che vada pure io a parlare. Hanno fissato l'udienza a gennaio.
Come passi ora le tue giornate in attesa della sentenza?
A. Non sono in galera ma è come se lo fossi. Dormo in un dormitorio pubblico, mangio alla mensa della caritas e lavoro sempre al parcheggio. Sono ancora una persona morta. Non sono libero. Posso fare la doccia solo una volta alla settimana e sono tutta la giornata fuori. Senza documenti qui in Italia sei come un barbone della strada. Hai sempre paura della polizia.
Al parcheggio adesso tornano i vigili, sequestrano le robe da vendere, fanno le multe e ti portano in questura.
Io sono venuto qui per cercare pace, non un lavoro. Io ho diritto ad avere un posto dove stare tranquillo. La testa ogni giorno mi fa sempre più male. È pesante.
Al mio paese non ci torno neanche da morto. Piuttosto muoio qui. Aspettiamo gennaio e poi vediamo...
Prima di lasciarti andare vorrei farti una domanda difficile... sentiti pure libero di non rispondere. Se a gennaio ti dicessero ancora di no...
A. se mi dicono davvero di no, meglio che mi arrestano. È da anni che aspetto il mio diritto di restare qui ma nessuno mi crede. Se mi danno i documenti la prima cosa che faccio è andare a cercare nei paesi vicini alla Mauritania, mia moglie e i miei figli. È dal 2008 che non li sento, che non so niente. Magari lei si è risposata, pensa che io sono morto o chi lo sa. Più di tutto però voglio rivedere i miei figli. Devono sapere che sono vivo, devono sapere che faccia ho. Se mi dicono di no, meglio che muoio. È facile. Vado in bici senza guardare le macchine o i semafori. Se mi investono è la volta che finisce tutto.
Non vorrai dirmi che anche questa volta...
A. Dalla questura questa volta, con la macchina della polizia, mi hanno portato a Milano, in un centro, quello dove rimandano indietro le persone. Ma io ero lì per fare l'asilo politico. Era come una galera. Anzi era una galera proprio. Ero lì per il problema del nome falso. Finalmente ho fatto una vera commissione. Ho parlato 5 ore di fila. Dalle dieci della mattina fino alle tre del pomeriggio.
Ma non mi hanno creduto e mi hanno dato il negativo. Avevo 30 giorni per fare ricorso.
Così hai fatto ricorso, esatto?
A. Certo. Tornato a Bergamo sono andato all'ufficio della Cgil. Mi hanno spiegato le cose, le leggi e tutto il resto. Ma io volevo un avvocato e ne ho trovato uno. Anzi una avvocatessa per essere precisi. Le ho dato tutti i documenti che avevo in mano, le ho raccontato tutta la storia, quella vera, come sto facendo con te adesso. Ma lei non ha fatto ricorso con questa storia. Se ne è inventata un'altra. Pensava fosse una via più facile per prendere i documenti dire che ero gay. Io, che ho una moglie e due figli, di cui non so più nulla.
Da come ne parli immagino non sia andato a buon fine. Sbaglio?
A. no, infatti. Il ricorso è andato male. Adesso però ho un altro avvocato che ne ha fatto un altro di ricorso, al tribunale questa volta. È stato bravo, ha messo tutta la mia storia precisa. Ha messo anche le informazioni del mio paese e delle persone che muoiono in Mauritania. È andato già una volta a parlare con i giudici. Ma adesso vogliono che vada pure io a parlare. Hanno fissato l'udienza a gennaio.
Come passi ora le tue giornate in attesa della sentenza?
A. Non sono in galera ma è come se lo fossi. Dormo in un dormitorio pubblico, mangio alla mensa della caritas e lavoro sempre al parcheggio. Sono ancora una persona morta. Non sono libero. Posso fare la doccia solo una volta alla settimana e sono tutta la giornata fuori. Senza documenti qui in Italia sei come un barbone della strada. Hai sempre paura della polizia.
Al parcheggio adesso tornano i vigili, sequestrano le robe da vendere, fanno le multe e ti portano in questura.
Io sono venuto qui per cercare pace, non un lavoro. Io ho diritto ad avere un posto dove stare tranquillo. La testa ogni giorno mi fa sempre più male. È pesante.
Al mio paese non ci torno neanche da morto. Piuttosto muoio qui. Aspettiamo gennaio e poi vediamo...
Prima di lasciarti andare vorrei farti una domanda difficile... sentiti pure libero di non rispondere. Se a gennaio ti dicessero ancora di no...
A. se mi dicono davvero di no, meglio che mi arrestano. È da anni che aspetto il mio diritto di restare qui ma nessuno mi crede. Se mi danno i documenti la prima cosa che faccio è andare a cercare nei paesi vicini alla Mauritania, mia moglie e i miei figli. È dal 2008 che non li sento, che non so niente. Magari lei si è risposata, pensa che io sono morto o chi lo sa. Più di tutto però voglio rivedere i miei figli. Devono sapere che sono vivo, devono sapere che faccia ho. Se mi dicono di no, meglio che muoio. È facile. Vado in bici senza guardare le macchine o i semafori. Se mi investono è la volta che finisce tutto.
1 commento:
grande Dominguel! ecco cosa stavi scrivendo quella sera al circolino basso!! Perchè non scrivi più spesso per il nostro blog?
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