di Sara L.
Ore 18.15, un giovedì sera come tanti
altri. Sono appena uscita dal lavoro e sto tornando a casa. In Via
Carducci c'è la solita colonna più o meno scorrevole, arenata tra
un semaforo e l'altro.
Sono un po' nervosa. È stata una
giornata pesante e quel deficiente davanti a me ha fatto un paio di
zig zag decisamente azzardati tra le macchine, riuscendo a piazzarsi
davanti alla mia Bontina, sporchissima al contrario della sua
fiammante station wagon, guadagnando quelli che per lui devono essere
10 metri davvero fondamentali.
Il primo semaforo dopo la rotonda è
rosso: puntuale come ogni sera, un venditore di rose si avvicina alle
macchine in coda. Lo conosco, ormai, si può dire: lo vedo tutti i
giovedì e venerdì, abbiamo imparato a riconoscerci. Non so il suo
nome, intuisco che è pachistano o indiano, neanche lui sa il mio ma
ha una certezza: in due anni che passo da lì non gli ho mai comprato
una rosa, ma gli ho sempre negato il mio contributo con un sorriso, e
lui l'ha sempre accettato con un “ciao”... d'estate poi, col
finestrino giù, l'interazione talvolta viene anche essere arricchita
da un “ciao, come va?”.
Sta per arrivare alla mia macchina, ma
prima offre una rosa al fenomeno davanti a me, chiuso nella sua
macchina fiammante e nella sua mente ristretta. La scena si svolge in
pochi secondi: il ragazzo si china verso il finestrino e il guidatore
(lo vedo benissimo da dietro), dopo averlo guardato, fa un gesto col
braccio mandandolo al diavolo e urlandogli contro qualcosa. Non so
cos'abbia detto, il volto del venditore di rose non sembrava neanche
particolarmente colpito dalla maleducazione del conducente... quante
volte gli sarà capitato di subire lo stesso trattamento?
Il semaforo è verde: si riparte.
Proseguo verso casa, ma nei miei occhi ci sono ancora quelli del
venditore di rose. Poco dopo, per uno strano gioco del caso, dal mio
cd parte questo pezzo.
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