-

martedì 12 febbraio 2013

Chi fa da sé... fa danno per tre

di Francesco Mancin
Chi fa da sé fa per tre, così recita l'antico ma sempre attuale proverbio. Un invito a tirarsi su le maniche, un inno alla sfiducia che sacrifica la compagnia, valore molto "italiano", in favore dell'efficienza, anzi dell'efficientismo. Come una scena in cui si contrappone la solita squadra di barzellettieri operai dell'ENEL, che, all'angolo della strada, si gustano una non meglio definita lunga pausa mentre lo sfortunato di turno lavora, ed accanto a loro passa un ben-vestito (e ben-pensante) manager milanese di formazione proto-newyorkese che con fare superiore denigra tra sé e sé il loro "lavoro" "di squadra".
Ecco, questa metaforica scena racchiude l'essenza dell'idea di partito e di movimento della politica italiana, quella che si presenta per leader e liste bloccate (con i soliti arrivisti incravattati) da una parte e con sconosciute ed assolutamente impresentabili pseudo-militanze dall'altra.
La verità, si dice, sta nel mezzo. Ma neanche troppo.
La storia dello stato di diritto si fronda e si sviluppa attraverso un lavoro di diplomazia e di fine cesellatura programmatica che non possono esulare né dalla necessità di una partecipazione democratica costruttiva né dalla celerità, appunto efficientista, che la naturale tendenza riformatrice della democrazia può vedere assicurata solo attraverso la mediazione di leader.
Il problema tuttavia si moltiplica come si moltiplica la complessità del mondo, della società, dell'apparato economico- finanziario nella fattispecie, o ad esempio con l'emergere di imponenti movimenti migratori.
Non è più pensabile, e forse non lo è mai stato, a settanta anni dalle ceneri della seconda guerra mondiale, costruire e condurre un apparato statale (una comunità sociale) con le sole competenze e i soli contributi di pochi leader e di pochi partiti o movimenti. Non è più possibile far aderire la propria preferenza elettorale su quelle superficiali caratteristiche che un candidato, un premier, pubblicizza per pubblicizzare sé stesso, né tantomeno appaiono sufficientemente coerenti quelle esternazioni sociali che puntano alla esclusiva democrazia diretta ad ogni costo. Non per uno stato di 65/68 milioni di abitanti.
Qualità come l'integrità morale personale, la personale esperienza e competenza lavorativa o biografica, l'ideologia di riferimento, ecc. rimangono essenziali per definire la propria preferenza, la quale tuttavia non può assolutamente non tener conto della appunto "squadra" del quale il leader si circonda, e attraverso quella o attraverso i singoli di quella formare il proprio convincimento.
E se un leader è circondato sì di "gente in gamba",
ma non sostiene né patrocina le sue collaborazioni, allora vuol dire che si tratta di un candidato irriconoscente, personalista e forse anche poco disposto all'autocritica.

Devo qui dire che sono sempre stato un profondo sostenitore di forme mediate di tecnocrazia (quella di Monti non lo è! VEDI: Governo di tecnici, governo di politici): una forma di governo costituita da competenti ed autonomamente capaci di scelte razionali nel proprio raggio d'azione/campo scientifico. Per intendersi dei ministri che abbiano nella loro vita amministrato la conoscenza prima delle vite di una Nazione (un esempio su tutti non un Bersani il filosofo che nel governo Prodi fece il ministro dell'economia). Ciò senza esautorare il primato di un Parlamento esteso (più parlamentari = più rappresentatività, non è riducendo il numero che si fa meglio: se non ci sono preferenze i parlamentari potrebbero essere 100 o 1000 e sarebbe uguale! Silvio Mussoloni ha tutto l'interesse a levarsi di torno 300 parlamentari in vista di un governo tecnico nel 2018!), che riconosca innanzitutto l'autorevolezza di un ministero competente, e che lavori per commissioni che facciano da contrappeso legislativo ai poteri dell'esecutivo del Consiglio dei Ministri.
Insomma diffidare da quei partiti che si reggono sull'egocentrismo del proprio candidato, o che dietro al forte carisma del leader celano vuoti programmatici e candidati scomodi all'opinione pubblica. Diffidare da quei partiti che pensano si possa fare a meno di tecnici-politici per elaborare ed avverare un programma: è impossibile che un uomo anche di straordinaria capacità possa conoscere e proporre soluzioni a tutti quei problemi ai quali la politica è oggi chiamata a rispondere. Diffidare inoltre anche da quelle compagini che teorizzano una politica svuotata della cultura, votata solo a contenitore di tecnicismi e di poteri di reggenze, che parla di priorità (dell'economia su tutto per esempio) affidabili solo agli "uomini del fare". Ma, dal canto mio, penso di poter sostenere che per fare tutto ciò non sia necessario perseguire il modello di partito che ha caratterizzato la politica italiana ed in certe misure europea degli ultimi sessanta anni: non è vero che il partito è necessario per partorire ideologie durature, non è vero che nei "non-partiti" (non in tutti) ci sono solo cani sciolti accomunati soltanto da quattro cosette, non è vero che il partito è garanzia di governabilità. E non c'è scienza che lo dimostri, lo dimostrano la storia, la cronaca politica e la statistica anche non recenti.
E' curioso come i manifesti elettorali continuino a perseguire un modello di politica siffatto, carico di slogan ignoranti e faccioni troneggianti, espressioni di campagne elettorali che si giocano con eventi, colpi di scena, battibecchi e presenze televisive e non con contenuti anche difficili, ma spiegati. In questo ultimo caso una lancia va vigorosamente spezzata in onore di Fare, per Fermare il Declino, che in questa pagina web (leggere approfondimenti)... . Una freccia va invece scoccata contro tutti i vari Berlusconi che in questo momento si mostrano seccati dalla contingenza del Festival di Sanremo e della rinuncia papale che "sottrae" tempo alle essenziali e piacevolissime prosopopee pre-elettorali.

Nessun commento:

Recenti