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martedì 19 marzo 2013

The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)

di Edoardo Marcarini


Che la musica negli ultimi anni stia attraversando il suo periodo più ristagnante e mercenario sta diventando opinione sempre più diffusa. Il pianoforte dei salottini è stato rivoltato su soffitto e pavimento in tutti i modi possibili e immaginabili, le etichette discografiche hanno spremuto, censurato e corrotto fino al midollo ogni stimolo creativo posteriore agli anni 60' e gli psicologi della musica si rannicchiano come avvoltoi su figurini di dubbia sessualità per plasmare il futuro prodotto da piazzare in vetrina e vendere. Lo stesso Wilson nel 2002 diede una catastrofica premonizione sul futuro della musica, che verrà "distribuita in pillole argento" (si veda la canzone "The sound of Muzack" dei Porcupine Tree dall'album "In Absentia"), tuttavia è proprio il prodotto delle meningi di Wilson a provare che c'è sempre chi va controcorrente e che si trova sempre qualcosa di creativo, nuovo e di un certo valore musicale, basta volerlo cercare.

Lasciando perdere i dati anagrafici, Steven Wilson è cantante, chitarrista, bassista, tastierista e tecnico audio (un tuttologo insomma) emerso come frontman della band progressive rock/metal Porcupine Tree, in cui canta, suona la chitarra, ma soprattutto compone. Lo stile della band è estremamente influenzato dal panorama degli anni 70', in particolare dai Pink Floyd da cui riprendono i pezzi lenti ma strutturati, la voce "calma", l'effettistica e i tappeti di tastiere, il tutto centrifugato con ingredienti squisitamente moderni, stacchi in stile Tool, controtempi e poliritmie. Il repertorio della band è notevole e ad oggi si costituisce di 10 album in studio (perlopiù concept album). Tuttavia parleremo di uno dei loro lavori ma dell'ultimo album composto dal frontman, il suo terzo album solista.

"The Raven That Refused To Sing (And Other Stories)" è uno di quegli album che si possono definire "pieni": è pieno di significati e tematiche di svariata sensibilità, è armonicamente e ritmicamente vario, passa dalla sperimentazione jazz alle lacrime da ballad nel giro di tre pezzi e mette i brividi a primo ascolto. E' un album che sarebbe stato un capolavoro anche se registrato malamente in un bagno, stampato su banalissimi CD col titolo scritto con l'indelebile e distribuito ai concerti di una band di diciottenni. Se consideriamo che, a fronte di una grande qualità dei pezzi, la registrazione del disco e l'intero mixaggio sono stati diretti da un più che celebre Alan Parsons, il prodotto finale non può che far rizzare i capelli in testa a tutti i nostalgici di atmosfere prog. Circa 55 minuti di sorprese ed echi di mostri sacri del rock sintetizzati in sei soli pezzi.

L'album si apre con "Luminol" un brano estremamente vario che racchiude in sé il materiale per comporre un album intero. L'inizio è "cattivo", ma l'arrivo della chitarra coi suoi effetti e delle melodie jazzate del flauto spostano subito l'intenzione dal metal alla musica sperimentale. Nel giro di 4 minuti il pezzo è stravolto completamente e si svilupperà poi sulla linea già tracciata dai Genesis e dagli Yes, con chitarre dagli arpeggi aperti ed un basso voluminoso e tagliente, con l'aggiunta di cori a più voci che Wilson recupera, come da lui stesso dichiarato, dal folk-rock di Crosby, Stills, Nash & Young.
In seconda posizione piazza "Drive Home", un pezzo molto più calmo e rilassante. Il brano è una ballad ben strutturata che si apre con una chitarra alla Steve Hackett mantenendo atmosfere alla Pink Floyd (ma anche tipiche degli stessi Porcupine Tree), il tutto in un crescendo più emotivo che musicale che porta all'assolo di chitarra perfettamente in linea con quelli di David Gilmour.
Segue "The Holy Drinker" pezzo decisamente più sperimentale dell'album. Il sound è più giovane rispetto alla media dei pezzi e si sentono le influenze del progressive moderno dei Pain of Salvation e dei The Mars Volta, con toni più dissonanti e jazzati in atmosfere cupe in cui la chitarra si muove a suo piacimento seguendo anche brevi linee atonali. Sulle linee di basso rock trova spazio anche un notevole assolo di sax in stile Colosseum II.
"The Pin Drop" è forse la canzone più ambigua di tutta l'opera. L'apparentemente sereno arpeggio maggiore che accoglie l'ascoltatore è solo il velo illusorio che copre un pezzo di note malinconiche e tristi.
"The Watchmacker" è invece il più elaborato dei pezzi sul piano armonico. Ricco di citazioni, tocca melodie diabetiche contrapposte ad altre funeree. Si sentono di nuovo i Genesis e Pink Floyd soprattutto nell'introduzione mentre il flauto classicheggiante si sposta piano piano su note che ricordano i Jethro Tull. Rispetto alla consueta produzione wilsoniana sono qui concentrati assoli di un grande virtuosismo, lo stesso compositore si è limitato a "dirigere l'orchestra" e lasciare ad un più esperto Guthrie Govan l'esecuzione delle linee di chitarra.
Title track e pezzo conclusivo dell'album è "The Raven That Refused To sing" una ballad dal forte carico sentimentale da cui spiccano i temi della solitudine e della separazione, introdotti da uno sfondo musicale perfettamente coerente con quanto espresso dalle parole (il video musicale è molto suggestivo, non posso pubblicarlo perchè coperto da diritti ma lo trovate su youtube).

L'intero album è quindi un tributo al passato ma che guarda al futuro, in cui Wilson discioglie se stesso esponendo il suo lato più sentimentale, senza chiudere mai le porte a quello sperimentale.




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