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mercoledì 3 luglio 2013

Eroi dei miei tempi, ormai altri. Perché credo che Andreotti debba ancora essere vivo.

di Francesco Mancin
"Crederò alla fine di Berlusconi solo quando morirà dolcemente tra le braccia di una Lolita" Bert Wagendorp, Wolkskrant, Paesi Bassi (da Internazionale,n. 1006)
Ero alle scuole medie, al secondo o al terzo anno, quando iniziai a rendermi conto della vastità del mondo, delle guerre, delle lotte per i diritti civili e politici, della povertà. Oggi mi chiedo chi debba ringraziare per questo, se i miei genitori, i viaggi dell'infanzia, la scuola. Sicuramente un tassello fondamentale fu posto quando lessi Quale Futuro, una raccolta di piccoli saggi molto accessibili e didattici, che spiegavano con agilità i grandi problemi del Novecento come lo scioglimento dell'Urss, la storia di Iqbal Masih, la Palestina di Arafat, Rabin e Clinton. Fu così che mi spiegarono dell'Apartheid e di Nelson Mandela, e di quello stato con un'insolita capitale che sembrava una città del Lazio, uno stato allora dilaniato dal mercato dell'inutile lusso dei diamanti De-Beers.
Mi ritenni e mi ritengo fortunato. L'orgoglio di essere vissuto negli stessi anni in cui i grandi personaggi della storia sono ancora viventi per me è incalcolabile. Mi sembra di avere un grande privilegio, di riuscire a partecipare all'evoluzione sociale dell'uomo, anche se distante migliaia di chilometri, comodo nel mio appartamento.
Da allora coltivo la profonda nostalgia di non essere nato in prossimità del sessantotto, di non aver visto in televisione Ernesto Guevara, il generale De Gaulle o Togliatti. Di aver conosciuto Gandhi solo come martire, di aver capito dopo la bellezza di un pezzo di De Andrè, il coraggio di Calamandrei, la caparbietà di Pertini, il sacrificio di Moro.
Ho la sensazione di aver perso i migliori anni per godermi gli eroi: gli anni in cui gli eroi esistevano e si celebravano pur viventi, in cui qualcuno, per moralità o contributo all'umanità, si poteva guadagnare lo status di intoccabile.
E' per questo che finora mi sono attaccato con forza all'emozione di essere un "contemporaneo" di un "grande del Novecento", è per questo che, le recenti notizie su Mandela mi sconfortano.
Chi è rimasto? Chi rimane di quel secolo tormentato fatto di scelte vere, dolorose, coraggiose?
Il problema del secolo breve è che ci lascia un'eredità di morti celebri che ci fanno dubitare del valore degli eroi. Gandhi, Rabin, Iqbal, Luther King, sono icone che i proiettili hanno impresso definitivamente nella memoria del mondo, palpabili idee di purezza. Certo anche personaggi meno trasparenti come i Kennedy, o Arafat, forse sono stati consacrati da una morte prematura o comunque inaspettata.
E negli ultimi anni quanti ci hanno lasciato? Solo quest'anno Colombo, l'ultimo costituente, e la Hack, Rita Levi Montalcini prima, Neil Armstrong e Oscar Luigi Scalfaro. Ma soprattutto il domestico e umile Don Gallo e il partigiano francese Stéphane Hessel.
Dispiace veramente che il destino, o la biologia, ci abbiano privato della possibilità di udire ancora le loro parole e di leggere ancora i loro scritti, e tutto questo mi porta, forse ingiustamente, a considerare amaramente che ogni volta che ci si perde uno di questi "pezzi" si scivola sempre più nella mediocrità degli opinionisti, dei talk, degli arrivisti della società contemporanea. Made in ventunesimo secolo.
Una società, anzi una fattoria dove non si eleva nessuno sul podio per il merito e la forza delle sue parole e dei suoi atti, dove non è permesso adorare gli idoli, che potrebbero sostituirsi ai vitelloni grassi e ricchi, o alle letterali vacche, oche o polli da spennare. E' la paura di doversi confrontare con il duro reale e con la vera saggezza che scatena il fango di miccoli su Falcone o quello di borghezio su Saviano. Questi omuncoli non si meritano neanche la lettera maiuscola dei Grandi.
A questi dispiaceri si aggiunge un dispiacere meno di moda:
vedere scomparire i Grandi Criminali della storia. Un po' come gli eroi, provo un certo senso di privilegio nel poter osservare direttamente le vite dei personaggi negativi degli ultimi trent'anni. E quando la morte li coglie, credo che si perda per sempre la possibilità di conoscere la verità, o almeno una verità. Così per Osama Bin Laden: un giusto processo avrebbe reso giustizia almeno alla ragione umana, o a quella presunta democrazia Usa che si esporta a casse di granate, bombe al fosforo e pappagalli verdi.
Se Saddam Hussein e Gheddafi fossero ancora viventi potrebbero godersi lo spettacolo di una nuova era del Medio Oriente, e la loro esistenza forse non avrebbe creato degli inevitabili seguaci del loro "incolpevole martirio". La sopravvivenza di questi è, né più né meno, sopravvivenza della memoria, è monito presente del passato, orgoglio, appunto, di averli superati con le armi di una rivoluzione culturale.
Se Andreotti e Cossiga  fossero ancora vivi avrebbe ancora senso il ritornello che spesso si ripeteva: "...quello lì, li ha seppelliti tutti i suoi nemici politici...". Se fossero ancora vivi si nutrirebbe con vigore la sacrosanta indignazione per la morte di Aldo Moro, per lo stragismo pianificato e taciuto degli anni Novanta, per le pistolettate in piazza degli anni Settanta.
In un certo senso è vero che i migliori se ne vanno sempre prima e sempre troppo giovani, ma come si sacrificarono in vita per osteggiare il potere dei peggiori così sacrificarono la loro vita per la speranza che altri dopo dopo di loro sarebbero venuti crescendo nella terra arata dai loro vomeri. Io ringrazio don Pino Puglisi per ciò che rappresenta, ma ringrazio anche Totò Riina perchè vederti dietro le sbarre mi ricorda che non tutto in Italia va male.
Perciò se Madiba non ce la farà, sarò triste per aver perso un Grande, un Uomo, ma sarò contento perché tutto il mondo, forse, rivaluterà l'importanza di avere degli eroi, dei padri, degli scrittori stravolgenti, degli scienziati senza l'ombra del progresso eticamente sbagliato, degli statisti con la luce negli occhi invece delle mutandine delle minorenni in casa.

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