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giovedì 30 gennaio 2014

Hannah Arendt, il film che racconta l’essenza del male del Novecento

di Francesco Mancin

Hannah Arendt è il titolo del film che quest'anno è stato proiettato in diverse sale aderenti su tutto il territorio nazionale, per celebrare la Giornata della Memoria del 27 Gennaio. E' la brillante, nitida e veritiera rappresentazione di quel che successe alla filosofa in seguito all'arresto del gerarca nazista Adolf Eichmann.
Eichmann durante il periodo nel quale avvennero i fatti della Shoah si occupò del trasporto nei campi di concentramento e sterminio, del trasferimento tra un campo ed un altro e dell'organizzazione logistica di tutto quel capitale umano che fu sterminato secondo le direttive di Heinrich Himmler. 
Come sintetizza Rai Edu-Filosofia: "Inizia a Gerusalemme il processo ad Adolf Eichmann. E’ la prima volta che un criminale nazista viene giudicato da una corte in Israele. Nel corso del processo, uno dei maggiori responsabili dell’Olocausto ammetterà solo "la responsabilità di aver eseguito ordini come qualunque soldato avrebbe dovuto fare durante una guerra". E’ il suo atteggiamento durante le udienze a ispirare ad Hannah Arendt l’opera sulla banalità del male come prodotto di una organizzazione burocratica e dell’acquiescenza degli individui".Il film affronta appunto le pesanti vicende interiori, sociali, familiari e politiche che attraversano e spezzano la vita della Arendt, con la grande capacità da parte della regista Margarethe von Trotta di non procedere nell'esposizione attraverso l'uso di quella facile retorica che spesso circonda questi argomenti e di esplorare le implicazioni e le conseguenze etiche ed emotive della filosofa, equilibrando con sapienza i flashbacks della tormentata relazione col mentore e amante presunto filo-nazista Martin Heiddeger e la scoperta da parte dello spettatore di profonde ferite nell'identità e nella coerenza del popolo ebraico quanto (e attraverso) la Arendt stessa.
Come accade per la preparazione di un buon piatto tradizionale il film presenta con originalità tutti gli ingredienti più genuini:
è un'opera in cui c'è veramente molto della condizione dell'uomo post-moderno e contemporaneo, dallo smarrimento delle proprie radici allo sbigottimento per le atrocità della propria specie, dalla prodromica ricerca della verità e dell'amore per la conoscenza (la filosofia stretta) al vano tentativo di ricerca del senso. Ed ancora il film si propone di indagare, o meglio, ha la splendida virtù di farci immedesimare nelle incongruenze del singolo e di un popolo che chiedono pietà e contemporaneamente dura giustizia, memoria e superamento.
A fare poi da collante è la perfetta scelta di poggiare la trama su una solida piattaforma di verità storica, di cronaca e di fatti accertati, senza romanzare (o dare l'impressione di farlo) nemmeno raccontando delle spaccature che si creeranno tra la Arendt e la comunità scientifica newyorkese (ed i suoi amici più cari), a seguito della pubblicazione sul The New Yorker di quei cinque articoli dai quali poi nascerà l'opera The Banality of Evil, La Banalità del Male.
Si rivolge sicuramente ad un pubblico di una certa cultura generale: le citazioni più o meno implicite di "parametri" filosofici non sono infrequenti, così come i riferimenti alla storia della costituzione dello stato di Israele, del movimento sionista e dei governi di Ben Gurion, nonché dei fatti del processo di Norimberga.
Per chi si interessa di diritto poi il film offre notevoli spunti, o agganci alle diverse concezioni di giustizia penale, di opportunità della pena, del senso di vendetta e di quello di popolo ed opinione pubblica.
In generale ciò che più colpisce è l'antitesi geniale tra la Arnedt, la filosofa considerata arrogante e totalmente atarassica, che sintetizzando in sé stessa sentimento e grande lucidità speculativa arriva a descrivere il male contemporaneo in un modo che gli altri accademici della sua università, accecati dal pregiudizio e dall'autocelebrazione, non furono in grado né di capire né quindi di accettare.
Dal punto di vista tecnico il film è impeccabile, al punto che la versione sottotitolata (l'unica distribuita in Italia) non disturba affatto chi come me è ben poco abituato a seguire film in lingua più complessi delle serie TV. La fotografia è squisitamente delicata ed ispirata con rigore all'immaginario degli anni sessanta, molto simile ai film di Salvatores, mentre in regia non si sbaglia davvero un colpo: la narrazione rapisce ed al contempo concede allo spettatore il tempo di maturare le domande e le risposte che si svilupperanno e comporranno la pietanza di tutti i suoi sapori forti ed i suoi aromi delicati, quasi impercettibili.
E' proprio per la capacità di aver raggiunto l'obiettivo prezioso di saper mettere in discussione con le giuste domande, senza necessariamente disintegrare i valori e le identità di chi guarda (pratica che spesso lascia perplessi più che cresciuti), che ritengo questo film uno dei migliori mai prodotti per raccontare il Nazismo ed i pericoli della mediocrità dell'uomo.

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