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mercoledì 12 settembre 2012

L'Italia Archeo(Il)logica

di Francesco Mancin
Questa bell'estate ho avuto la fortuna e l'automobile (a metano!) per poter girovagare in lungo e spesso in largo nello stivale. Una tipologia ed una filosofia di viaggio poco programmato, delineato soltanto nelle tappe principali, che permette una certa libertà. Con un buono stradario ed un buon cappello di paglia corredato di occhiali da sole, complice la diffusa disponibilità degli "autoctoni", io e la mia compagna siamo riusciti a scovare delle piccole perle artistico-culturali tralasciate dalle principali guide turistiche.
Ciò mi ha permesso di venire a contatto con metodi di organizzazione, fruizione e conservazione dei beni artistico-culturali molto differenti, soggetti più o meno alle leggi del mercato, più o meno finanziati dallo stato, variamente pubblicizzati.
La riflessione si potrebbe concentrare in modo significativo sulla conservazione dei resti e dei siti archeologici.
In Italia vi è un enorme ed impensabile patrimonio di resti e segni delle antiche civiltà preistoriche (ValCamonica in Lombardia, Toirano in Liguria, Ostuni e il Gargano in Puglia, per citarne alcune), villanoviane, etrusche e romane, longobarde ed ostrogote, paleocristiane ed altomedievali.
Impensabile non soltanto per il numero di siti aperti, ma soprattutto per le poco metaforiche montagne di antichi insediamenti ancora sommersi. Basti pensare alla difficoltà di ampliamento degli apparati della metropolitana che si registrano annualmente nella Capitale.
Parlo poi di patrimonio in senso prettamente economico: un campo, quello dell'archeologia e dell'archeologia didattico-sperimentale, che continua a ad attirare ed affascinare turisti e studiosi un po' da tutto il mondo. Un patrimonio sul quale sarebbe bene investire.
Ma che significa investire in archeologia?
Di certo ricorderete le vicissitudini che portarono alle "semi" dimissioni dell'ex Ministro dei Beni Culturali Sandro Bondi. Si trattò allora,
novembre del 2010, del crollo della Scuola Gladiatoria del Sito di Pompei, il più ricco, vasto (per vederlo tutto leggendone ogni cartello sono stimati 3 giorni; le guide preconfezionano itinerari di 3 ore; noi ci abbiamo camminato dentro esattamente 7 ore e mezza), spettacolare ed importante sito romano d'Italia e del mondo. Seguitarono in breve tempo due crolli di muri perimetrali nel dicembre. Si imputò allora tutto alle infiltrazioni d'acqua, non monitorate adeguatamente ed aggravate dal peso di restauri in cemento armato dei tetti delle domus. Rimane aperta un'inchiesta della procura partenopea in merito all'uso dei finanziamenti pubblici.
Considerate per Pompei un biglietto intero di 11€, ridotto e per giovani fino a 25 anni di 5,50€, gratis per studenti e professionisti di architettura, archeologia, storia dell'arte e beni culturali.
Moltiplicate il tutto per una media di 6-7 milioni di visitatori annui.
Pompei è il caso eclatante: una città sommersa, lavori e scavi che proseguono da 160 anni, ancora un quinto di superficie non cavata, una responsabilità storica e sociale nel mantenimento e nel restauro impressionante sia dal punto di vista dell'"etica" che  da quello meramente fattuale del denaro che circola attorno alla cittadina.
Potremmo poi raccontare di quella bellissima oasi archelogico-botanica (wwf-soprintendenza viestana) di S.Merino a Vieste sul Gargano: un gioiellino di sentieri fra catacombe ipogee e parietali paleocristiane ed un micro-ecosistema di macchia mediterranea ed acqua salmastra dove convivono ulivi, canneti, finocchio selvatico e dove depongono le uova capitoni e cefali dal mare.
Costo annuo attuale pubblico: 0€! Con una guida di 26 anni neo- laureata, che dopo aver partecipato alla costruzione del progetto di salvaguardia del sito si ritrova senza fondi e senza stipendio  ad occuparsi volontariamente di due turni al giorno di visita. Il biglietto è di 4€, che a mala pena coprono probabilmente i costi di mantenimento del sito.
Una tomba ipogea nel parco archeologico di Polulonia-Baratti.
Sono tornato alcuni anni dopo aver già visitato il sito a Populonia-Baratti, Piombino, Toscana. Qui si insediarono gli etruschi, e senza particolari conoscenze si può chiaramente intuire quanto ancora ci sia da scavare, e d'altro canto quanto si consumino in fretta tutti i beni archeologici riportati alla luce senza adeguate protezioni dagli agenti erosivi. Il parco archeologico risulta oggi spettacolare: sentieri raccordano i vari siti collinari, la ricchezza è emozionante, l'archeologia è vissuta attraverso i piedi e con una certa libertà di movimento che fa della visita una scoperta. Eppure le difficoltà non mancano, vuoi per i tombaroli secolari ed il mercato nero dell'arte, vuoi per la porosa e friabile pietra "panchina", arenaria della quale è costruita la fragile necropoli.
E' qui che abbiamo iniziato a farci qualche domanda sul senso e sui modi di sfruttare culturalmente ed economicamente i siti e l'archeologia in genere.
Proprio una guida di Populonia particolarmente disponibile ci parlò, in una amichevole chiacchierata, di una responsabilità con cui fare i conti: se non ci sono i soldi per conservare che le si lascino sotto terra certe cose! Ovvio, questa "etica" conservativa si scontra con l'"etica" della divulgazione e della fruizione pubblica, con quella sacrosanta della pubblicazione scientifica e della ricerca, e con quella in po' meno moraleggiante del ritorno economico. Se sia possibile parlare di etica di mucchi di sassi forse è in dubbio, ma quel che è certo è che una scelta vada fatta. E' triste e vagamente cinico dover ridurre anche l'arte "anonima", ovvero quella legata alle antiche civiltà o all'etnografia, alle categorie del mercato, ma rimane sicuramente un ambito col quale fare i conti.
I sostenitori di un'archeologia divulgativa più attenta potrebbero arrivare al punto di mettere in dubbio persino la fruizione universale di certi beni o monumenti, ovvero di permetterla soltanto a fronte di una comprovata soglia minima di conoscenze storiche. Un metodo piuttosto tecnocratico che minerebbe il senso stesso della ricerca storico-scientifica al servizio della conoscenza universale.
Bisognerebbe poi interrogarsi sul senso di conservare un tipo di produzione umana che ai più appare, appunto, come un mucchio di sassi.
Bisognerebbe chiedersi quanto e cosa ci si deve aspettare dallo sfruttamento economico di un sito archeologico. Quanto e perchè si debba inverstire, ma soprattutto interrogarsi sul tipo di restauro: ha più senso scoperchiare la terra e lasciare che il vento faccia il resto a patto di mantenere una radicale genuinità del reperto o ha più senso un restauro che, sempre se dichiarato conservativo, potrebbe seriamente intaccare l'impatto "emotivo" dell'antichità ingabbiata in una finta ricostruzione strutturale di, ad esempio, un anfiteatro romano?
Nell'ottocento già due scuole di storici dell'arte ed archeologi si erano fronteggiati filosoficamente. Chi aveva fede nella ricerca storiografica come supporto alla ricostruzione di un rudere, chi invece ne voleva cogliere l'essenza romantica della rovina (Goethe, per citarne uno).
Il concetto di genuinità va poi declinato alla luce della divulgazione e del livello culturale della popolazione turistica, della capacità d'investimento, della volontà di mantenere un bene patrimonio dello Stato o di farlo amministrare a privati, ecc.
Per concludere, il problema si presenta come in altri campi molto complesso, ma non fossilizziamoci sulle questioni dei fondi e dei "magna magna". Sarebbe invece auspicabile un serio ragionamento sul tipo di cultura (didattica, visiva piuttosto che elitaria, piuttosto che radicalmente onnicomprensiva, ecc.) che vogliamo trarre dal nostro insieme di "sassi" e di pezzi di marmo.
Per vedere il disastro di Pompei:
Link Sky TG 24

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