di Sara L.
Senza voler aprire disquisizioni di
antropologia culturale e delle migrazioni, eccovi due piccoli
aneddoti, frutto di un giorno di lavoro di ordinaria follia.
Ore 17.00 arrivo in comunità per il
fatidico “primo colloquio” con un ragazzino senegalese di 16 anni
da poco arrivato in Italia; già che ci sono, dato che noi dipendenti
pubblici, si sa, siamo dei gran fannulloni, porto dei documenti e
chiedo di avvisare un educatore e un altro ospite che, per discutere
di un paio di cosette anche con loro. Vado nell'ufficio che utilizzo
di solito e poco dopo arriva il ragazzo seguito a breve distanza dal
mediatore, un ragazzo alto e sorridente, con una felpa in puro stile
Bomboklat, che già mi sta simpatico a pelle (giusto per rimanere in
tema). Il ragazzino, al contrario, non è affatto tranquillo: sfodero
il mio sorriso più accogliente e lo saluto, mi guarda timidamente e
quasi non osa sedersi. È dura farlo parlare, me ne accorgo subito...
risponde con poche e misurate parole, e gli cade qualche lacrima
dagli occhi. Dopo aver tentato le solite tattiche per creare un buon
clima, inizio un po' a spiegargli la sua posizione giuridica:
solitamente in questa fase i ragazzi si fanno attenti e i più
scafati già pongono domande e sollevano richieste. Lui ascolta in
silenzio, stringendosi sempre più nella sua giacca: quando gli
chiedo come si trova in comunità mi risponde “Bene, sono tutti
così gentili... però fa freddo”. Beh, dal Senegal all'Italia è
una gran brutta escursione termica, mon ami!
Alla fine riesco a portare a galla ciò
che lo fa stare così male: il mediatore mi guarda, fa un sorriso
mesto e con tutta l'Africa negli occhi mi dice “Ha detto che gli
manca la mamma... sono molto legati.”
Cosa dire? Come porsi, anche
professionalmente, davanti a una sofferenza come questa? Eccolo lì,
un ragazzino, non importa tanto da dove arriva... è a migliaia di
kilometri da casa, e gli manca la mamma. Gli poggio la mano sulla
spalla e gli faccio una carezza, dico che se mai lo vorrà lo
aiuteremo a tornare a casa; una questione così intraculturale, così
umana e antropologicamente insita in ogni essere vivente mi farà
pensare per un bel po'...
Poco dopo, terminato il colloquio con
il sedicenne senegalese, entra dalla porta l'altro ragazzino che
attendevo. Ha il passo sicuro di chi è in Italia da un anno ormai,
mi saluta col suo sorriso sincero e un po' irriverente e, da perfetto
gentiluomo egiziano, mi chiede come sta la mia famiglia e come me la
passo. Dopodiché controlliamo insieme alcuni documenti che dovremo
inviare in tribunale e dirimiamo ancora un paio di questioni; stiamo
giusto aspettando l'arrivo del suo educatore di riferimento e lui mi
dice:
“Sara posso chiederti una cosa?”
(oddio, cosa mi vorrà chiedere
adesso?! Spero che non tiri in ballo che sta frequentando qualche
ragazzina, se no mi toccherà fargli un discorsetto di difficile
gestione sul sesso sicuro...).
Niente di tutto questo, per fortuna...
“Sara ma tu cosa mi dici della storia delle scimmie?”
“Che storia delle scimmie?!”
(sempre più perplessa...)
“Massì quella che noi eravamo
scimmie... che l'uomo arriva dalle scimmie!”
“ah!!!!! la teoria dell'evoluzione!”
“Sì! Ma secondo te è vero?”
“Beh vedi” comincio un po'
incerta... “esistono diverse verità, se così le vogliamo
chiamare. La scienza sostiene che l'uomo si sia effettivamente
evoluto da una specie particolare di scimmie, mentre la tua religione
per esempio [è cristiano], sostiene che l'uomo sia stato creato da
Dio” (ovviamente dovevo semplificare, non padroneggia ancora
benissimo l'italiano).
“Beh io non ci credo” dice lui
“possibile che in 11 anni di scuola in Egitto nessuno mi abbia mai
detto che il mio bis nonno era una scimmia!”
Storie di ordinario lavoro da
assistente sociale.
P.S.:ho evitato battutacce sul fatto
che secondo Borghezio “loro” (i cittadini stranieri) fossero
tutt'oggi delle scimmie, mentre l'On. della Lega ha un cervello più
piccolo di quello della pulce di una scimmia... sempre perché non
padroneggiando la lingua (né la “cultura” politica del Belpaese)
non avrebbe capito.
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