di Francesca Introna
Ci sono libri che hanno valore per tutti i tempi storici, che trasmettono qualcosa indipendentemente dal luogo e dalla data di nascita del lettore. Questa è la caratteristica che li rende classsici. Un caso è Moby dick di Herman Melville, opera molto conosciuta ma poco letta. Il che è un peccato, perché colui che avrà il coraggio di affrontare le sue numerose pagine ci potrà trovare un intero mondo. Innanzitutto dal punto di vista dello stile: teoricamente è classificato come romanzo, ma ha interi capitoli che sono teatrali e altri saggistica, mentre certe pagine sono poesia in prosa.Ma veniamo al contenuto. Il senso ultimo di questo libro –e il motivo per cui lo consiglio- è racchiuso in una tragedia, quella del capitano Achab. Egli insegue la balena bianca per tutta la sua vita, ed è un inseguimento che lo acceca e che lo costringe alla privazione e alla solitudine. La caccia a Moby Dick è furiosa e illogica, e necessariamente lo porterà alla rovina. E Melville, forse ispirandosi all’ antica tragedia greca, costruisce un personaggio capace di rendersi conto della vacuità della sua ossessione, ma incapace di scegliere una strada diversa, perché dalla balena è attirato e posseduto, come da una forza oscura.
È chiara allora la perenne attualità di questo romanzo. Ognuno di noi ha il suo demone: l’eterna giovinezza, il denaro, il potere, la virtù immacolata, l’apparenza. Ma niente di tutto questo vale. Niente conta, se non lo sguardo degli altri, la loro compagnia. Solo l’amore ha senso in questo mondo, solo la felicità che le persone ci regalano ogni giorno. “Moby Dick” ci ricorda che l’unica cosa da temere per davvero è la solitudine, e l’unica cosa da inseguire è il suo contrario. Il resto può continuare a nuotare nell’oceano, senza bisogno dei nostri affanni.
“ Achab si volse.
- Starbuck!
- Signore!
- Oh, Starbuck, è un vento dolce dolce, e un cielo dall’aspetto dolcissimo. In un giorno simile, di altrettanta dolcezza, ho colpito la mia prima balena: ramponiere a diciott’anni! Quaranta, quaranta, quarant’anni fa! Quarant’anni di caccia continua. Quarant’anni di privazioni, di pericoli, di tempeste! Quarant’anni sul mare spietato! Per quarant’anni Achab ha abbandonato la terra tranquilla, per quarant’anni ha combattuto sugli orrori dell’abisso! Proprio così, Starbuck; di questi quarant’anni non ne ho passati a terra tre. Quando penso a questa vita che ho fatto, alla desolazione di solitudine che è stata, all’isolamento da città murata di un capitano, che non ammette che ben poche di quelle simpatie della verde campagna esterna..oh stanchezza!oh peso! Schiavitù africana di comando solitario!...quando penso a tutto questo, sinora soltanto sospettato, non mai veduto così chiaro, e come per quarant’anni non ho mangiato che cibo secco salato, giusto emblema dell’asciutto nutrimento della mia anima! Mente il più povero uomo di terra ha avuto frutta fresca quotidiana e ha spezzato il pane fresco del mondo, invece delle mie croste muffose…lontano, lontano oceani interi da quella mia moglie bambina che ho sposato dopo i cinquanta, mettendo la vela il giorno dopo al Capo Horn e non lasciando nel letto nunziale che un’infossatura…moglie? Moglie? Vedova piuttosto, col marito ancor vivo! Sì, quando ho sposato quella povera ragazza io l’ho resa vedova, Starbuck. E poi la pazzia, il delirio, il sangue in fiamme e la fronte bollente, con cui in migliaia di discese il vecchio Achab ha dato la caccia furiosa, schiumosa, alla preda, da demonio più che da uomo! Sì, sì! Che stupido è stato per quarant’anni, che stupido, che stupido, che vecchio stupido è stato Achab! Perché questo sforzo della caccia? Perché spossare, paralizzare il braccio al remo, al rampone, alla lancia? È più ricco o migliore ora Achab? Guarda. Oh Starbuck! Non è duro che, con questo grande peso che porto, una misera gamba mi debba essere stata strappata di sotto? Via, tira via questi vecchi capelli; mi accecano che sembra che io pianga. Capelli tanto grigi vengono solo da ceneri! Ma sembro davvero molto vecchio, tanto, tanto vecchio, Starbuck? Mi sento stracco a morte, piegato, ricurvo come se fossi Adamo, barcollante dal tempo del Paradiso sotto il cumulo dei secoli. Dio! Dio! Dio! Spezzami il cuore! Sfondami il cervello! Beffa! Amara beffa dei capelli grigi; ho forse provato abbastanza gioia da dovervi portare, e sembrare e sentirmi tanto insopportabilmente vecchio? Più vicino! Stammi accanto , Starbuck! Fammi guardare un occhio umano; è meglio che guardare nel mare o nel cielo; è meglio che guardare in Dio. In nome della terra verde, in nome del focolare acceso! Quest’è lo specchio magico marinaio, vedo mia moglie e mio figlio nel tuo occhio. No, no; resta a bordo, a bordo! Non ammainare con me, quando Achab marchiato darà la caccia a Moby Dick. Tu non dividerai quel rischio. No, no, non con la casa lontana che vedo in quell’occhio. “
(ex cap. 132, traduzione di Cesare Pavese)
1 commento:
Se può interessare, qui ho raccolto un mucchio di citazioni da Moby Dick. Ciao
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