London Calling. Il richiamo potente del Rock inglese
di Fabio Ferretti
Era il 1993 e frequentavo ancora il liceo. I miei consumi
musicali, educati da uno zio chitarrista, spaziavano dall’hard rock americano
(Mr. Big e Rainbow, tanto per citarne un paio) al glam metal (alla Extreme per
intenderci), passando per massicce dosi di progressive rock (Pink Floyd su
tutti.. chi non ci è passato?). Il primo genere in cui mi ero tuffato
individualmente, cioè senza la mediazione di qualcuno, era stato il Grunge:
suono più viscerale e immediato del Prog, ma comunque tutt’altro che gioioso;
anzi, direi proprio cupo, riflessivo, con vaghe (neppure troppo) tendenze al
nichilismo e all’autodistruzione. Ben presto mi era venuta voglia di cambiare
aria, di sperimentare qualcosa di decisamente nuovo, di andare un po’ contro la
corrente del periodo.
Quale genere mi avrebbe consentito di riuscirci e, per di
più, di farlo con un deciso cambio di rotta verso tutt’altre atmosfere musicali?
Li vedevo già i volti dei miei amici musicisti che, incurvando leggermente le
labbra verso il basso a mo’ di riprovazione, avrebbero energicamente scosso la
testa emettendo dei suoni simili ad un “mah”, il tutto con sullo sfondo i loro
accordi cupi e minori. E nell’ambito di quel “nuovo” genere, da cosa partire? La
scelta fu del tutto casuale: London Calling dei Clash. Un cd in cui mi ero
imbattuto durante una battuta di caccia nel negozio di dischi dove lavorava il
più classico degli amici: un dj.
Fu un’autentica rivelazione. Già al secondo passaggio ero
incapace di restare fermo. Energia pura, adrenalina al massimo livello,
difficoltà a scegliere quali fossero i brani migliori: ad ogni ascolto scoprivo
qualcosa di nuovo e di coinvolgente che modificava le certezze e le gerarchie
sino ad allora createsi; ben presto tutti i brani mi sembrarono ugualmente
efficaci, senza che vi fossero, cosa rara, i classici riempitivi per far numero.
Ero assolutamente colpito da quel mix di garage, reggae, pop e di dance rock
che a partire dal 1979 avrebbe influenzato gran parte della musica a venire,
talmente colpito che iniziai subito a scrivere una recensione del disco per
convincere un amico scettico ad ascoltarlo almeno una volta. C’era tutto quello
che mi poteva piacere e che faceva così tanto rock: la voce cartavetrosa di
Strummer, i testi tipicamente working class e di denuncia sociale altamente
ironici, la sezione ritmica in continua evoluzione e fatta apposta per urlarci
e ballarci sopra, persino la copertina-icona con il bassista che sfasciava
allegramente il proprio strumento sul palco.
Da quella che fu un’infatuazione puramente emotiva e “di
gusto” iniziò un percorso di maggiore conoscenza del Punk e dei Clash in
particolare. Percorso che mi ha portato a scoprire come Joe Strummer fosse una
sorta di predestinato, poco dotato musicalmente, con una voce non proprio
melodica, ma naturalmente carica di energia e, soprattutto, piacevolmente
“svogliata”. Oppure che Topper Headon, il batterista, proveniva dal mondo del
jazz, aspetto che solo apparentemente può risultare strano ma che, ad un
ascolto attento dei brani, acquista invece pienamente un senso.
Insomma, i Clash non erano assolutamente quegli
strimpellatori (a dispetto del nomignolo del leader) capaci unicamente di
cavalcare l’onda del momento, quanto dei bravi musicisti ispirati dalla
tradizione avviata dai Sex Pistols, ma, a differenza di questi, in grado di
durare quel tanto che bastava per sperimentare e lasciare una traccia
indelebile nella storia della musica.
Ed ecco che a distanza di tempo non mi stupisco affatto
di vedere l’album all’ottavo posto nella classifica dei migliori 500 dischi
della storia dell’autorevole rivista Rolling Stone, unico a poter contendere lo
scettro agli eterni (e soliti) mostri sacri chiamati Beatles, Bob Dylan, Beach
Boys e Rolling Stones.
Non c’è che dire. London Calling, anche a distanza siderale, resta uno
dei miei album preferiti. Il punk è un’attitudine nei confronti della vita e i
Clash hanno dimostrato che può anche essere distruzione gioiosa che prepari il
terreno ad una ricostruzione. E’ denuncia non nichilista. E’ quella parte di
noi stessi che non si accontenta e che si ribella, incominciando dalla critica
feroce del proprio tempo e dei propri costumi. C’è un po’ di punk in tutti voi
e se ascolterete London Calling vedrete che verrà fuori.
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