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martedì 11 giugno 2013

L’ambiguo fascino del (semi)presidenzialismo

Pubblichiamo un articolo apparso sul sito www.c3dem.it di Filippo Pizzolato, professore associato in Istituzioni di Diritto Pubblico presso la Facoltà di Economia dell’Università di Milano Bicocca, membro del Comitato nazionale “Salviamo la Costituzione” e Vice-presidente dell’Associazione “Città dell’Uomo”. Bergamasco, è una figura ormai cara e conosciuta ai redattori di Spogliatevi!. Il Prof. Pizzolato si è in questi anni distinto per i suoi limpidi contributi ai percorsi di cittadinanza rivolti a ragazzi e giovani.
Bene ha fatto Angelo Bertani a richiamare la priorità, sempre procrastinata, della riforma dei partiti, in attuazione dell’art. 49 della Costituzione e nella direzione della loro democratizzazione interna. Il dibattito sulle riforme istituzionali è, solo apparentemente, un tema distante da questo. E ciò per più motivi. Intanto osservo un’ambiguità di fondo che grava su questa fase “costituente”: la classe politica, rivelatasi (sin qui) incapace di modificare la legge elettorale (che è una legge ordinaria) e di trovare convergenze sulla Presidenza della Repubblica (tanto da rituffarsi – come soluzione tampone – tra le braccia “paterne” e “provvidenziali” di Napolitano), tenta ora, con questa avventura costituente, di guadagnarsi una ri-legittimazione senza rinnovamento, provando ancora una volta a riversare sulle regole – dopo quelle elettorali, ora la Costituzione – la responsabilità della propria impotenza.

Come ha osservato criticamente Franco Monaco in alcuni suoi recenti articoli, la soluzione del semipresidenzialismo, su cui si registra una convergenza crescente di consensi (da ultimo, perfino Romano Prodi), appare da un lato il tentativo di ratificare un’evoluzione che si pensa compiuta nei fatti (con il ruolo “indirizzante” svolto da Napolitano nelle ultime crisi di Governo); dall’altro di perseguire un miglioramento dell’efficienza istituzionale e una integrazione del sistema politico, segnato dalla debolezza e dall’inconsistenza dei partiti, per via leaderistica.

La soluzione non mi convince. Anzi tutto perché essa rivela, sin dalla sua formulazione, il limite di un forte condizionamento congiunturale, mai opportuno quando si parla di Costituzione. La difficoltà del sistema partitico di eleggere il successore di Napolitano non può diventare argomento per sveltire una riforma di così largo impatto. La “leggerezza” dei processi riformatori è – ahimè – attestata anche dall’oscillazione repentina del PD la cui direzione nazionale – ce lo ricorda di nuovo Monaco -, non più tardi di un anno fa, aveva respinto tale opzione semipresidenziale.
 E poi, nel merito, quale modello leaderistico si persegue? Il presidenzialismo americano si iscrive entro una logica complessiva, assai rigorosa di bilanciamento dei poteri, non certo in quella frettolosa della concentrazione del potere decisionale in capo all’organo di governo. La cultura politica e giuridica impressa nella Costituzione degli Stati Uniti è così incline a diffidare del potere, nelle sue diverse manifestazioni, da non aver mai fatto attecchire il mito del legislatore (o rappresentante) buono, perché espressivo della volontà generale; essa dunque accosta all’organo parlamentare un Presidente della Repubblica che vanti la medesima legittimazione democratica diretta del Congresso, così che l’un potere bilanci l’altro. Al di fuori di questa logica di bilanciamento dei poteri, rischia di profilarsi un’ambigua concrezione di decisionismo in salsa sudamericana. Basti osservare l’attacco, spesso sguaiato, che la nostra classe politica, soprattutto in talune espressioni, riserva alle garanzie (magistratura, Corte costituzionale, …) e ai contro-poteri per disilludersi sul radicamento – nel nostro contesto – di una cultura liberale analoga a quella che ispira il costituzionalismo nord-americano.

La fascinazione – anche da sinistra – riguarda però soprattutto il modello francese di tipo semipresidenziale, con Presidente della Repubblica eletto direttamente, ma chiamato a incarnare l’interesse generale, non l’indirizzo politico di un partito. Tale modello, recante sin dalla sua formulazione, la forte impronta del Generale De Gaulle (che arrivò alla Quinta Repubblica con una rottura costituzionale), si distanzia da quello presidenzialistico americano in quanto non si vuole fare del Presidente un leader“partigiano”, esponente di un indirizzo politico temporaneamente maggioritario, bensì l’interprete autorevole e forte dell’interesse generale della nazione, il garante supremo della continuità statale. Di fronte a questa proposta, la mia perplessità nasce soprattutto dal dubbio che un simile modello possa funzionare – pur non senza contestazioni e limiti – in un Paese, come la Francia, da secoli segnato (nel bene e nel male) da un vivo senso delle istituzioni repubblicane, al confine col nazionalismo, che permette anche ai cittadini un’identificazione forte. Questa orgogliosa idea repubblicana è palesemente carente in un Paese, come il nostro, che fatica perfino a fondare e mantenere un dignitoso senso di ciò che è pubblico, comune… La mia paura è che, nelle nostre condizioni, il Presidente della Repubblica, direttamente eletto, non sarebbe un autorevole garante dell’interesse generale, al di sopra delle fazioni litigiose, ma un decisore solitario cui la legittimazione popolare immediata rischierebbe di conferire una pericolosa vertigine di onnipotenza…


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