di Sara L.
Sono tempi difficili questi per
lavorare nel sociale. Sono tempi difficili perchè la gente inizia ad
incazzarsi davvero. Sono tempi difficili perchè sempre più gente
normale vede che non arriva a fine mese e alla tv parlano solo di
quando e come (e se!) verrà condannato Mr. B. Sono tempi difficili
perchè non ci sono soldi per avviare progetti. “Non ci sono soldi”
è proprio il leit motiv che mi ha accompagnato in questi primi tre
anni di lavoro. Non ci sono soldi è la prima questione che viene
mi viene sollevata, prima ancora di chiedere “perchè reputi
necessario questo intervento?”.
Sono tempi difficili per chi lavora nel
sociale: ma non solo per i motivi sopra esposti. Sono tempi difficili
anche perchè lo stesso social worker (per utilizzare un'espressione
di moda nel settore) è uomo, anzi direi più spesso donna, del
nostro tempo: (uomo) donna della crisi. (Uomo) donna che la crisi la
vive dentro il lavoro, ovvero sulle spalle degli utenti con cui
costruisce il processo d'aiuto, e (uomo) donna che la crisi la vive
nella vita privata.
Queste riflessioni, su cui rimugino già
da tempo, oggi si sono arricchite di un nuovo particolare... Fin'ora
pensavo esistessero sosotanzialmente due macro-categorie di social
worker:
- coloro che fanno del lavoro sociale una missione. Beh, questi devo dire non mi hanno mai convinto: la missione è tipicamente un obiettivo dato dall'esterno, per molti di coloro che appartengono a questa categoria è una missione divina, in poche parole un moderno aggiornamento della carità cristiana: delle dame di s. vincenzo con l'i-phone.
- coloro che fanno di questo lavoro un modo per tentare di migliorare un pochino la società in cui si è immersi, o meglio la “comunità”, o meglio ancora il “territorio”. Io credo di far parte di questa categoria, la categoria di coloro che nell'agire professionale sono guidati da pochi ma solidi principi-guida, che poi sono gli stessi che troviamo nei primi articoli della costituzione e che il codice deontologico degli assistenti sociali, non a caso, richiama: uguaglianza, dignità dell'uomo, non discriminazione, diritto alla salute, tutela di coloro che sono in una condizione di debolezza, diritto all'autodeterminazione.
Negli ultimi tempi sto rilevando che
ciò che sta caratterizzando il nostro tempo e rendendo così
difficile fare questo lavoro ha portato allo sviluppo di una terza
categoria.
Chi vi appartiene ha come primo
obiettivo la sopravvivenza. Lo scopo ultimo del lavoro è portare a
casa la giornata con meno casini possibili.
C'è un minore da
collocare?
Speriamo che scappi prima.
C'è un vecchietto che sta male
e avrebbe bisogno di un rilevante intervento domiciliare?
Speriamo
che muoia prima.
C'è un adulto psichiatrico e alcoldipendente che
non ha una casa?
E vabbeh, che ci vuoi fare... le han chiuse tutte le
comunità che conoscevo adatte a un caso come il suo...
Le fila di coloro che appartengono a
questa categoria si vanno ingrossando. Le file di coloro che pensano
“non è un problema mio” o “tanto che vuoi farci? Non ne vale
la pena” sono sempre più nutrite.
Ma dov'è l'Uomo? Dov'è l'Essere
Umano, prima ancora che l'operatore? Dov'è l'etica? Dov'è un
briciolo di onestà intellettuale? Dov'è la mutualità?
E' con un misto di tristezza e rabbia
che oggi chiudo la settimana di lavoro. Vista l'aggiunta di questa
terza categoria faccio ancora più fatica a intravedere la direzione
in cui sto andando: quello che so è che non voglio farmi
coinvolgere, che non voglio abbracciare questa categoria, che non
diventerò complice di questo personalismo-categorismo cinico, che la
filosofia del “morte tua – vita mia” ha un sapore troppo yankee
per entrare mai nelle mie corde.
Stay human, è col tuo monito,
Vittorio, che comincerò la prossima settimana di lavoro.
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