di Francesco Mancin
Come dimenticare la storica invettiva di Nanni Moretti in Palombella Rossa, che rimproverando aspramente una giornalista amante degli esagerati anglicismi, esclama: "Le Parole sono importanti!"
Vorrei cavalcare appunto la cresta dell'onda, e inserirmi anch'io nello zeppo e parziale dibattito che si è scatenato intorno al triste fenomeno del Femminicidio.
Trascendendo i moralismi, tenete presente che la parola femminicidio neppure esiste, e, sempre che il nuovo Devoto Oli non decida di introdurla l'anno venturo, continuo a pensare che la sua inesistenza tragga ragione dalla sua evanescente sensatezza.
La schermaglia ideologica si consuma su più fronti: c'è chi ne nega la ragionevolezza linguistica, c'è chi ne fa un allarme sociale improcrastinabile, c'è chi urla alla montatura giornalistica.
Io non mi sento di escludere, se non in parte, la veridicità di ognuna di queste affermazioni, facendo attenzione alle debite distinzioni.
Certamente è ormai ovvio il "marketing" giornalistico che i Media italiani fanno intorno alla cronaca nera femminile: inaugurato con le vicende della Contessa Vacca Augusta, passando per Cogne, Garlasco, Avetrana, almeno due anni di allarme stupri e concludendo con la violenza sulle donne, anticipati da insigni programmi come Amore Criminale, demenziale ricostruzione poliziesca a metà tra CSI, Blunotte e Un giorno in Pretura.
Credo che la soluzione sia distinguere in modo aperto e intellettualmente onesto il fenomeno dallo slogan.
Francamente da un punto di vista meramente legislativo e giurisprudenziale mi sembra ridicola la creazione di un neo-proposto reato ad hoc di femminicidio: potenzialmente discriminatorio e soprattutto impossibile da quantificare per mezzo di pene detentive, considerando che l'omicidio "semplice" preterintenzionale (art.584 c.p.) è punito già con 10 fino a 18 anni. Parlo di preterintenzionale perché, credo, riguardi il maggior numero di casi. Senza contare che con aggravanti generiche e speciali (o il cumulo di reati) come l'efferatezza, la riduzione prodromica in schiavitù, il sequestro, la premeditazione (omicidio premeditato), ecc. si arriverebbe comunque a pene considerevolmente elevate. E la pena detentiva in Italia è di trent'anni al massimo.
Quindi ipotizzare un eventuale reato di genere, come è stato chiamato, oltre che incostituzionale sembrerebbe rivelarsi un inutile sdoppiamento di un fatto di per sé uguale: la morte (l'uccisione) di un Homo Sapiens.
Il fatto che il suddetto vocabolo continui ad imperversare tra le news non legittima affatto l'idea che la morte di una donna sia più brutale di altre. Oltretutto, lo cito a malincuore, come osservava Vittorio Sgarbi a La Zanzara di Radio24 qualche giorno fa: "Come la mettiamo quando una donna uccide un'altra donna? Come si chiama quello?" Ed io aggiungo: come coniugare l'elemento oggettivo "morte della donna" con l'elemento soggettivo "sesso dell'autore". Insomma, un po' poco convincente in una società costruita sull'uguaglianza fra sessi (presunta e comunque fortemente voluta) e sull'uguaglianza formale (costituzionalizzata).
Attenzione! Con ciò non si vuole affatto sminuire l'emergenza del fenomeno: se da un punto di vista linguistico e penalistico non ci si possono permettere fantasie, altrettanto grottesco e fantasioso sarebbe tacere o negare l'esistenza del problema. E' sicuramente vero che incidenti stradali o mafia fanno più morti o li fanno in modo peggiore, ma è miope credere che la società che nel 2013 prende coscienza della violenza domestica o femminile sia nell'errore: un po' come la coscienza antimafiosa è lentamente nata e cresciuta, così la condotta di un compagno o di un maschio che approfitta della sua forza fisica e psicologica arrivando a togliere la vita ad una donna inizia ad essere considerata più che oltraggiosa e degna di interesse educativo, associativo e istituzionale. Probabilmente proseguendo su quel cammino che portò nel 1981 all'abrogazione del c.d. "Delitto d'Onore", ovvero l'attenuazione della pena in caso di omicidio dell'adultera o dell'amante.
Una società veramente libera e lungimirante non si preoccupa di dare slogan, pene rigorose (e inapplicabili), o appellarsi al "pugno di ferro", ma si concentra sull'educazione contro il mito del machismo prima, e nella eventuale rieducazione carceraria poi. Che siano venti o trenta gli anni di carcere non cambia nulla, se li si passa senza un progetto di re-integrazione nella città dell'uomo.
Credo che la soluzione sia distinguere in modo aperto e intellettualmente onesto il fenomeno dallo slogan.
Francamente da un punto di vista meramente legislativo e giurisprudenziale mi sembra ridicola la creazione di un neo-proposto reato ad hoc di femminicidio: potenzialmente discriminatorio e soprattutto impossibile da quantificare per mezzo di pene detentive, considerando che l'omicidio "semplice" preterintenzionale (art.584 c.p.) è punito già con 10 fino a 18 anni. Parlo di preterintenzionale perché, credo, riguardi il maggior numero di casi. Senza contare che con aggravanti generiche e speciali (o il cumulo di reati) come l'efferatezza, la riduzione prodromica in schiavitù, il sequestro, la premeditazione (omicidio premeditato), ecc. si arriverebbe comunque a pene considerevolmente elevate. E la pena detentiva in Italia è di trent'anni al massimo.
Quindi ipotizzare un eventuale reato di genere, come è stato chiamato, oltre che incostituzionale sembrerebbe rivelarsi un inutile sdoppiamento di un fatto di per sé uguale: la morte (l'uccisione) di un Homo Sapiens.
Il fatto che il suddetto vocabolo continui ad imperversare tra le news non legittima affatto l'idea che la morte di una donna sia più brutale di altre. Oltretutto, lo cito a malincuore, come osservava Vittorio Sgarbi a La Zanzara di Radio24 qualche giorno fa: "Come la mettiamo quando una donna uccide un'altra donna? Come si chiama quello?" Ed io aggiungo: come coniugare l'elemento oggettivo "morte della donna" con l'elemento soggettivo "sesso dell'autore". Insomma, un po' poco convincente in una società costruita sull'uguaglianza fra sessi (presunta e comunque fortemente voluta) e sull'uguaglianza formale (costituzionalizzata).
Attenzione! Con ciò non si vuole affatto sminuire l'emergenza del fenomeno: se da un punto di vista linguistico e penalistico non ci si possono permettere fantasie, altrettanto grottesco e fantasioso sarebbe tacere o negare l'esistenza del problema. E' sicuramente vero che incidenti stradali o mafia fanno più morti o li fanno in modo peggiore, ma è miope credere che la società che nel 2013 prende coscienza della violenza domestica o femminile sia nell'errore: un po' come la coscienza antimafiosa è lentamente nata e cresciuta, così la condotta di un compagno o di un maschio che approfitta della sua forza fisica e psicologica arrivando a togliere la vita ad una donna inizia ad essere considerata più che oltraggiosa e degna di interesse educativo, associativo e istituzionale. Probabilmente proseguendo su quel cammino che portò nel 1981 all'abrogazione del c.d. "Delitto d'Onore", ovvero l'attenuazione della pena in caso di omicidio dell'adultera o dell'amante.
Una società veramente libera e lungimirante non si preoccupa di dare slogan, pene rigorose (e inapplicabili), o appellarsi al "pugno di ferro", ma si concentra sull'educazione contro il mito del machismo prima, e nella eventuale rieducazione carceraria poi. Che siano venti o trenta gli anni di carcere non cambia nulla, se li si passa senza un progetto di re-integrazione nella città dell'uomo.
1 commento:
Pienamente d'accordo, Mancio. Alle donne non serve la c.d. "discfriminazione positiva". Ci basta la "pari dignità sociale".
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