di Francesca Introna
Giobbe il giusto, messo alla prova da Dio con grandi sventure, ebbe modo di dialogare con il suo Signore, con colui a cui addossava la responsabilità del suo dolore. Di fronte alle accuse di aver dilaniato un innocente e di far prosperare gli empi, la divinità risponde con arroganza, rimproverando all’uomo la sua ignoranza in materia di vita e di universo.
“Dov'eri tu quand'io ponevo le fondamenta della terra? Dillo, se hai tanta intelligenza!
Chi ha fissato le sue dimensioni, se lo
sai,
o chi ha teso su di essa la misura?
Dove sono fissate le sue basi
o chi ha
posto la sua pietra angolare,
mentre gioivano in coro le stelle del
mattino
e plaudivano tutti i figli di Dio?” (Giob, 38:4-7)
“Forse per il tuo senno si alza in volo lo sparviero e spiega le ali verso il sud?
A questo sfoggio di potenza, che si srotola per ottanta versi, Giobbe si arrende subito, ammette la sua inferiorità e tace.
E allo stesso
modo Abramo si accontenta della supremazia espressa e dimostrata più volte da
Jahvè, e non gli domanda spiegazioni per il sacrificio del figlio, che non si
compirà ma che egli è pronto a eseguire. Non contesta, non chiede ragione.
E nessuno, nella
folla, si permette di far notare a Gesù che la promessa fatta sulla montagna
non trovava riscontro nella vita quotidiana degli uomini.
"E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta.” (Mt, 6:28-33)
Beati loro. Beato
il giusto dell’antico testamento a cui basta intravedere la potenza dell’ignoto
per rimettere al creatore il giudizio sulla sua stessa esistenza, sul suo dolore,
sulla morte dei suoi figli. E beate le folle adoranti, che prestano ascolto
solo ai miracoli del Figlio di Dio e non anche alle sue irreali parole.
Il tema del
rapporto tra fede e dolore non si ferma ovviamente alle sacre scritture, ma
pervade la letteratura di tutti i tempi. Potrei fare milioni di esempi, ma in
realtà preferisco citare solo uno dei miei autori più cari: Alessandro Baricco.
In quello che è forse il suo libro meno conosciuto e più intimo, “Emmaus”,
descrive la vita di quattro adolescenti per bene, rigidamente educati e
radicati nella fede cattolica, nel momento in cui vengono travolti da una
tragedia. Questa è la risposta che si danno:
"Più di ogni inclinazione morale, e nel rovescio di tutte le dottrine, ciò che abbiamo ricevuto nella nostra formazione religiosa è stato innanzitutto un modello formale- un modello ossessivamente ripetuto nella violenza delle immagini che ci raccontavano la buona novella. La stessa unità folle della Vergine madre dimora nell’estasi dei martiri, e in ogni apocalisse che è all’inizio dei tempi, e nel mistero dei demoni, che erano angeli. Nel modo più alto, e carogna, dimora nell’icona ultima e definitiva, quella del Cristo inchiodato sulla croce – ricomposizione di vertiginosi estremi, padre figlio spirito santo, in un unico cadavere, che è dio e non lo è. Dell’aporia per eccellenza abbiamo fatto un feticcio – siamo gli unici che adorano un dio morto. E allora come potevamo non imparare, innanzitutto, questa capacità di impossibile - e l’ambizione a colmare qualsiasi distanza? Così, mentre ci insegnavano la retta via, noi già eravamo ragnatele di sentieri, e ovunque era la nostra meta. Ci hanno taciuto che era così difficile. Quindi tracciamo madonne imperfette, sorpresi di non trovare al termine quegli occhi vuoti -ma invece dolore e rimorso. Per questo ci feriamo, e moriamo. Ma è solo questione di pazienza. Di esercizio.”
"Più di ogni inclinazione morale, e nel rovescio di tutte le dottrine, ciò che abbiamo ricevuto nella nostra formazione religiosa è stato innanzitutto un modello formale- un modello ossessivamente ripetuto nella violenza delle immagini che ci raccontavano la buona novella. La stessa unità folle della Vergine madre dimora nell’estasi dei martiri, e in ogni apocalisse che è all’inizio dei tempi, e nel mistero dei demoni, che erano angeli. Nel modo più alto, e carogna, dimora nell’icona ultima e definitiva, quella del Cristo inchiodato sulla croce – ricomposizione di vertiginosi estremi, padre figlio spirito santo, in un unico cadavere, che è dio e non lo è. Dell’aporia per eccellenza abbiamo fatto un feticcio – siamo gli unici che adorano un dio morto. E allora come potevamo non imparare, innanzitutto, questa capacità di impossibile - e l’ambizione a colmare qualsiasi distanza? Così, mentre ci insegnavano la retta via, noi già eravamo ragnatele di sentieri, e ovunque era la nostra meta. Ci hanno taciuto che era così difficile. Quindi tracciamo madonne imperfette, sorpresi di non trovare al termine quegli occhi vuoti -ma invece dolore e rimorso. Per questo ci feriamo, e moriamo. Ma è solo questione di pazienza. Di esercizio.”
Questo articolo non
ha nessuna pretesa di completezza, o di bellezza. È solo un tentativo di dare
spunti a chi, come me, si è posto il problema di dare un senso alla fede.
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